Ai miei compaesani - Congedo
Devo dirvi che un dubbio è venuto a picchiarmi al cervello intento allo scrivere: il dubbio che qualcuno di voi, leggendo, non sia venuto a domandarsi: A che questo pezzo d'imbecille è andato perdendo il tempo per fare questa scocciante mostra di pastocchie e storielle? Ed allora la penna mi è caduta di mano.
Ma poco appresso m'è venuto da ridere, ridestandomisi in mente tanto quel che Paolo Ferrari fa dire ad un personaggio scettico d'una sua commedia:
Che scopo ha chi passeggia? chi fuma? e che so io, chi, avendo tanti debiti, si raccomanda a Dio?
Quanto la lunga filza d'interrogazioni canzonatorie in versi a rime baciate, a voi nota, cori de'quali un Pievano di Colle di Macine incalzava un amico, che poco innanzi la mietitura, andava in cerca di paglia; versi che non posso trascrivere perché troppo numerosi, né rivelatori di sacerdotale castità, alla quale quei pievani erano alquanto restii fin da come si è visto nella numerazione dei fuochi del 1447 (Dio mi guardi dal malignare oggidì). E poi pensavo che ci son quelli che scrivono romanzi, bozzetti, articoli critici o biografici e poesie, che Dio li accolga nella sua infinita misericordia! Ed allora la penna ha ricominciato a scorrere di nuovo.
Tal'altra, specie traverso le cose «quarum pars parva fui» precorrevo un po' macabramente quel che si potrà andar borbottando quando l'Arciprete «ritto su la mia cassa» reciterà con piagniculosa cantilena il "Libera me Domine... A porta Inferi" (e il dì lungi non è che diventerò favola a la gente, quasi alla vigilia dell'ottantina). Forse, rammentando le male fatte prove del pecoraio, del cantiniere, dell'azzecca-garbugli, «et de quibusdam aliis» si ricorderà che mi fecero fare anche quella del Sindaco ovverosia Podestà. Ma fu proprio all'esordio che vollero tornare a «le fresche brezze del patrio suol» quei tali Signori di Maio, che se n'erano andati a Deliceto, e non per «un regal serto sul crin posarmi»; ma per solleticarmi quella «grattatio capitis quæ facit recordare cosellas». E fu allora che che mi trovai davanti la Bella addormentata nel bosco (quella tale Signorina Promiscuiquità lasciataci da Zurlo), che per tenermela fedele dovetti dedicarle la prima stampa del mio vituperato opuscolo.
Salterà fuori in ultimo come diventai:
Dio dell'or Del mondo signor Possente, risplendente.
E mio ministro fu Belzebù, il quale mi si prese l'anima ed anche i danari, nonostante patti in contrario.
Però compiei la mia giornata innanzi sera facendo pigliare prima i vostri paesani soldi per liberarvi una volta per sempre da quell'Idra che ho sempre lamentata nei miei noiosi libercoli.
Che me n'è restato? Ricordo un'allegoria d'uno degli scrittori miei prediletti, il russo Turghenieff. Raccontò su per giù il Turghenieff che lo spirito candido d'un giovine era salito al Cielo; e fra le beatitudini delle celesti sfere, scorse due donzelle di sorprendente bellezza, una bruna ed una bionda andar liete a braccetto. Stette lungamente a rimirarle per la bellezza, e perché si sovveniva vagamente di averle incontrate talvolta in terra, ma senza rammentare chi fossero e dove. Di che accortosi l'angelo suo custode che ancora lo accompagnava, disse: «Come? non le riconosci? Ma quella è la Generosità e questà è la Riconoscenza... Ah sì, adesso rammento; ma è che la prima volta le vedo andare insieme».
E poi ricordate Didone? Didone chiese al Re africano (aspettate... come si chiamava? Gianbarba Sciarpa Giarra, Giarba...) un po' di terra per farci alcuni villini, ma Jarba, che aveva tentato di sollevarle alquanto le gonnelle, ma non ci era riuscito, per farsi una risata, rispose di volerne dar quanta ne chiudeva la pelle d'una vacca... Gratis? Gratis. Parola di Re?... Parola di Re.
Io invece non ho potuto ottenere tanta terra quanta Jarba voleva darne a Didone, e pure, nonostante, patti in contrario.
Però Didone, ch'era una bella e gioviale ragazza capracottese, ma furba, e se n'era andata in Levante, dove l'aveva sposata il miliardario Sicheo; ma poi si era messa a far l'amore con un commesso viaggiatore, un certo Enea, della ditta Virgilio, Marone e compagni e perciò al marito aveva rotto un prezioso portacenere per sigarette e lo dice pure Dante quando la trovò all'Inferno, Didone dico teneva le forbici affilate non meno della lingua; cosicché tagliò la pelle della vacca in sottilissimi cordoncini, e li dispose un dopo l'altro in semicerchio attorno alla riva del mare. Fece andare tutti i maestri...
Luigi Campanelli
Fonte: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931.