Quanto al nome di Capracotta, buffo appellativo per quanti l'odono la prima volta, e fonte perciò dei sollazzevoli motteggi al nostro arrivo fra nuovi condiscepoli del Ginnasio e del Liceo, bisogna dire che non ne abbiamo una spiegazione storico-filologica. Nondimeno come Mefistofele nel Faust di Gounod, «farò quel che potrò». Per non seccar la gente, ponendo, come appendice a queste notizie, alcune ipotesi che ne sono state espresse di discutibile consistenza etimologica.
Già prima è facile avvertire che l'imbroglio non è riposto tanto nella derivazione della prima, quanto della seconda parte della parola. Un anonimo ricercatore di vecchie memorie, da Piedimonte d'Alife, molti anni fa, fece pervenire a questo Archivio comunale il dono d'una sua Monografia di Capracotta manoscritta, ma riferentesi a periodi posteriori alla scoperta dell'America. Egli notava che l'appellativo di capra dette luogo alla denominazione di molte terre quali ad esempio Capraia, Capri, Capralba, Capranica, Caprarola, Capriati, Serracapriola ecc. tutte di natura favorevoli alla pastorizia. Ricordava le Nonæ caprotinæ celebrate dai Romani in onore di Giunone, a sua volta detta anche caprotina, ed effigiata perciò talvolta con una pelle di capra addosso. Aggiungeva che Strabone designava Capri col nome greco di Kapreas, e Tolomeo con Kaprea; ma che in greco Kapros significa porco o cinghiale. Dimodoché secondo il detto monografista la frequenza di capre ovvero di porci selvatici nel nostro territorio poteva aver dato lo spunto al nome. Che n'avesse ragione? dato che nel nostro territorio c'è anche il Verrino ossia la denominazione derivante dal diminutivo del maschio della scrofa? Ma il monografista tace su questo e sul resto.
Il Cervesato nell'attraente libro "Latina tellus" osserva come la natura stessa dei luoghi conduce all'origine delle loro denominazioni e tal altra, secondo le osservazioni del Tommasetti è la destinazione loro o la storica evoluzione della proprietà; così il nome di Caprolano e di Capracoro a due tenute dall'Agro Romano corrisponde ad asprezza di sito adatto alle capre.
E sta bene: possiamo esser d'accordo sempre sulla prima parte della parola. Ma sulla seconda?
Il Prof. Antonio De Nino espresse il parere che questa seconda parte dovette essere trasformazione di parola più antica. Ma quale? Ed egli credeva di scorgere in essa una certa analogia con le altre, per es. cozia (Alpi cozie), ozzo (Tagliacozzo). Restiamo nel campo delle ipotesi. L'avv. Giambattista Campanelli, mio zio, in un breve sunto di memorie del paese nativo premesso a ricordi genealogici familiari pubblicati in S. Maria Capua Vetere nel 1875, riferì una tradizione tramandatagli da vecchi che il nome di Capracotta avesse avuto ragione dal fatto che «in tempi barbarici, distrutti per politiche emergenze, quattro paeselli esistenti in vari punti viciniori, i superstiti, a somiglianza dei Capuani radunati in Sicopoli, si fossero ridotti su quel monte ove si era soliti di sacrificare a Diana. Un giorno si vide sulle rupi una capra vagante e poscia s'intese lo scroscio d'una folgore, e la capra fu poi rinvenuta bruciata».
Negli emblemi o stemmi di Capracotta infatti trovasi effigiata una capra sulle fiamme con una stella crinita a guisa di cometa al di sopra. Così nell'Onciario del 1742, nel bassorilievo su pietra murata a sinistra dell'altare maggiore della Chiesa, e l'altro nel pilastro che sorregge la cupola; ma nessuno può dirci se non fu la parola stessa a dar l'argomento allo stemma, come appare più probabile, anziché il fatto tradizionale ricordato dallo zio.
Un tempo io stesso, ebbi la temerità di spifferare la sentenza che il significato della denominazione dovesse ricercarsi nell'antico linguaggio osco, quando con l'osco non avevo avuto neppure una breve intervista. Pensai pure alta possibilità di andar pescando vocaboli analoghi nel greco antico e nel latino arcaico ma «ignoti il loro m'erano e ora» perché ero stato sempre il più asino della classe.
Bisogna riconoscer peraltro che tutti i torti non li avevo, tenuto presente che qua s'era trovata la famosa tavola osca di bronzo, e serbavo la vaga reminiscenza di un Caio Cotta giovane romano esiliato al tempo della terza guerra sannitica, a quanto narra, mi pare, Livio. In più ricordavo che c'è la Cotta che indossano i chierici, gareggiando nella ricchezza dei merletti che ne adornano il bordo inferiore e l'estremo delle maniche e c'erano una volta la Cotta d'armi, lussuosa sopravveste di Principi e Cavalieri e infine la cotta di maglia, corpetto a rete in acciaio protettore del busto di quei guerrieri che avevano danaro per procurarselo. Il che mi faceva andare all'idea che cotta potesse avere un significato diverso dal participio del verbo cuocere.
lnsomma, nello strimpellare il Carducciano «chitarrin cortese sul mio dolce paese», andavo rimuginando che si potesse a questo sottrarre il banale attribuitivo di un qualsiasi Dannunziano pezzo della «carne del becco sordido e bisulco» rivoltato sul fuoco per elevarne il nome a più fastoso significato. Ma rimasi con le pive nel sacco atteso più constatazioni che mi si sollevarono incontro.
Perché l'aggiuntivo di cotta o cocta non trovasi unito solamente a Capra in denominazioni locali di questi dintorni. Presso i contermini Pescopennataro e S. Angelo del Pesco c'è una contrada denominata Lisciacotta o forse Bisciacotta (liscia da noi si chiama una lastra di pietra sottile, sfaldata da massi d'arenaria, usata come tegola, biscia si dice specialmente de' serpi di pantano).
Nella "Cedula generalis subventionis imposita in Iustitieratu Aprutii citra flumen Piscariæ" nel 1320, riportata dal Minieri Riccio, si trova menzionata Piscis coda, frammezzo ai nomi di Castellum novum S. Vincenti, Castellionum caput fluminis, Rocca intermontes, Campus miczus, castello diruto, il quale, come assicura il Faraglia, giaceva presso il Sangro, verso Pescasseroli.
Anche in Minieri Riccio trovasi questa graziosa notizia che Chiara d'Aquino, dal suo sposo Gualtieri di Sangro ebbe «pro honore primi osculi sedecim casatos vassallorum, quos tenebat in Villa Sancti Angeli, quæ dicitur Piscecotta». Era dunque la Villa S. Angeli di Barregio, nominata in altri ricordi storici, vale a dire l'odierna Villetta. Si era soliti in quei tempi, aggiunge il Minieri Riccio, di assegnare alla sposa, nei contratti di matrimonio, qualcosa o una certa somma pel detto onore «primi osculi». Si trattava naturalmente dell'onore, e del piacere se vogliamo, che la sposa s'apparecchiava a concedere lasciandosi baciare col primo amplesso, e il cospicuo regalo di Gualtieri a Chiarina depone che le signorine gentildonne del tempo si facevan pagare bene e in anticipo le loro grazie, altro che nei tempi attuali che sono i loro babbi a fare l'opposto, offrendo, come suol dirsi, fior di quattrini a chi vuol fidanzarsi con le figliuole.
Scorrendo poi a caso gli Annali del Cardinale Baronio, mi venne fatto di leggervi, nelle vicende medioevali, d'una carnevalesca usanza dei Longobardi di sacrificare capre, o in linguaggio più povero ammazzarle, cuocerle e divorarle, lasciandone la testa per consacrarla al... Demonio! «Anni Christi 579 Eodem quoque tempore, dum fere quadraginta captivos alios Longobardi tenuissent, more suo immolaverunt caput capræ diabolo; hoc ei per circuitum currentes et carmine nefario d'edicantes. Cumque illud ipsi, submissis cervicibus, adorarent, eos quoque quos ceperant hoc pariter adorare compellebant».
Ora la concomitanza dei nomi di Bisciacotta e di Piscecotta col racconto della capra dei Longobardi contribuirono a risospingermi verso l'interpretazione banalmente letterale di Capra-cotta. Perché andavo fantasticando, può bene essere avvenuto che, a quel tempo del primo spuntare dell'idioma italico, una copiosa pesca dei polputi capitoni del medio Sangro e dello Stagno di Saletto; e poi di grosse e nere trote, specialità dell'alto Sangro tra Villetta e Pescasseroli, e infine di grasse capre, o caprioli selvatici (un tempo c'erano nella vastissima distesa di boschi del nostro Monte Capraro in su del fiume) potevano benissimo aver dato occasione a pantagrueliche scorpacciate di pesci o di carni specialmente ai lanzichenecchi longobardi che, da veri tedeschi lurchi chi sa con quale golosità formidabile scorazzavano pei nostri luoghi. Che poi essi, dopo l'immolazione della capra e piene le pancie, ne circondassero la cornuta testa ballandole intorno una ridda infernale con grida mefistofeliche ed osceni atteggiamenti, costringendo i prigionieri a piegare ad essa il capo in adorazione, è cosa che poteva provocare lo scandalo del timorato di Dio e rinunziatario papa, Cardinale Cesare Baronio: ed empire di stupore o d'allegria i prigionieri stessi o le genti prossime a' Castelli sacri alla luna di miele di Chiara d'Aquino e Gualtieri di Sangro, ovvero i nostri pastori, ma io credo che quella era tutta una ginnastica per digerire e far chiasso.
Dunque? Dunque «state contente umane génti al quia» ed il quia è che Capracotta non ha altro significato che di Capra-cotta, e che il Capretto di Capracotta al forno nel Marzo-Aprile è una leccornia di primissimo ordine, e che il celebrato gigot de mouton di Parigi non di rado è fatto di capra.
Luigi Campanelli
Fonte: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931.