Rientrando nel corso degli avvenimenti del paese entro il periodo del 1500-1600, si presenta fra essi di notevole attenzione la Chiesa intitolata a S. Maria di Loreto ed una pia associazione formatasi sotto lo stesso nome sempre in epoca imprecisata. La Chiesa stessa, un tempo piccola e rozza, era antichissima, come si rileva da un verbale steso il 27 luglio 1622 (anno in cui fu bellamente rifatta) che ha fra le altre queste testuali parole: «Contulimus in venerabili Ecclesia nuncupata Santa Maria de Laureto extra mœnia dictæ Terræ Capracottæ antiquissime constructa et noviter ampliata»... Infatti, sulla soglia dell'eremitaggio affiancato alla Chiesa stessa, leggevasi incisa la data del 1622 in grossi numeri fino a pochi anni or sono in cui l'eremitaggio stesso fu meglio ricostruito. Questa bella e solitaria Chiesetta, che ispira religioso raccoglimento in chi vi si sofferma, e rispettoso ossequio ai concittadini che le passano innanzi, è la maggiore dopo la matrice, e dette il nome alla strada che vi conduce, un chilometro circa dall'estremo dell'antico abitato.
Vuolsi che fosse stata eretta per più intensa divozione dei nostri maggiori verso quella Madonna protettrice dei viaggi, perché in quei dintorni eran soliti di radunarsi con gli armenti per condurli a svernare ai bassi piani nei principii dell'autunno, ed ivi, dopo qualche giorno di permanenza, si accomiatavano dalle donne, le quali recavan loro i fardelli del vestiario e delle prime provviste alimentari da porre sulle bestie da soma, e che, dopo gli ultimi addii raccomandavano nella preghiera l'incolumità dei cari partenti. Nello stesso luogo questi sostavano al ritorno sul finire della primavera per rientrare contenti nei modesti abituri, e da tutti si rendevan grazie alla Vergine.
Così il sommo fervore di fede che s'andò destando tra i nostri antichi verso quella Madonna, li indusse non soltanto ad ergerle il tempio, ma a profonderle copiose e svariate elargizioni. Terreni, oro, animali, danaro le furon a gara generosamente, forse con sacrifizii, donati. Con tali doni e coi loro frutti, serbati con amore pari alla fede, vennero a costituirle un patrimonio vistoso. Le fù messa insieme una masseria armentizia che raggiunse il numero di 8.000 pecore e capre, completamente attrezzata di reti, secchi, caldai, pali ecc. fornita di oltre 50 animali equini da soma, d'una razza di giumente ed un'altra di più che 100 vacche pure con le relative attrezzature, di 12 bovi per la coltivazione delle terre. Le costruirono un apposito fabbricato in paese per riporvi ogni materiale mobile; foraggi, bestie; dettero a mutuo rilevanti somme disponibili; ne curarono la iscrizione alla Dogana delle pecore in Foggia per farle avere il diritto d'una estensione pascolativa di terre del Tavoliere adeguata al numero ed alla specie del bestiame; le acquistarono perfino una vigna nell'agro di Agnone, ne amministrarono scrupolosamente il patrimonio e lo invigilarono così che pervenne quasi intatto ai nostri tempi.
Ma delle vicende di questo patrimonio avrò occasione di intrattenermi in seguito.
Parecchie altre confraternite o pie associazioni oltre quella di S. Maria di Loreto s'erano andate formando dal nome di svariate cappelle, di S. Antonio, del S. Sacramento, del Carmine, del Rosario, dei Morti, con notevoli dotazioni da svariate offerte. Esse presentavan l'aspetto di società mutue d'aiuti spirituali anziché di materiali. Ciascuna ebbe la propria amministrazione, la propria gerarchia, le proprie insegne con differenti colori. Così quella del Sacramento in rosso scarlatto, in azzurro quella del Carmine, in nero quella dei morti, in rosso rame l'altra di S. Maria di Loreto; e, nelle lunghe processioni delle principali feste, ne svolazzavano al vento gli stendardi, e brillavano alla luce le cappe e le stole di seta, con le quali gli ascritti si presentavano pure in talune funzioni, o in funebri onoranze.
Altre istituzioni d'indole ecclesiastica eran sorte col nome di Badie. Non è stato più possibile trovarne le tavole di fondazione, accortamente fatte sparire al tempo delle leggi 1867-1868 per l'eversione dell'asse ecclesiastico. Non ci restano perciò ricordi del nome dei fondatori, dei loro intenti e delle riserve. Ma in conclusione si trattava della destinazione del reddito d'alcuni cespiti immobiliari in favore di ecclesiastici pro tempore addetti dal patrono a queste Badie. Il diritto di patronato probabilmente veniva riservato alla discendenza dei fondatori, i cui successori nominavano l'ecclesiastico: e questi veniva ad assumere le qualità di minuscolo abate.
Queste Badie furon quattro, la prima intitolata ai S. Nicola, Giovanni, Rocco e Sebastiano ebbe l'assegno dei frutti di 270 tomoli di terreni (ettari 67); la seconda di S. Antonio di Vienna si ebbe 40 (ettari 10); la terza di S. Maria della Consolazione 24 (ettari 6); la quarta di S. Justa 15 (ettari 4); come rilevasi dall'Onciario 1743: ossia Catasto delle possidenze compilato per ordine del governo di Carlo III. La Commissione feudale del 1808 definì queste Badie quali Benefizii semplici.
Era radicata e persistente nello spirito dei tempi la tendenza alla molteplicità di tante istituzioni ecclesiastiche: Chiese, cappelle, confraternite, badie, santuari, clausure e tutte portarono insieme l'accrescimento del sacerdozio; e il sacerdozio a sua volta l'accrescimento e l'arricchimento di quelle; fenomeno che meriterebbe troppi lunghi commenti.
La cura delle anime era affidata principalmente all'Arcipretura, ed anche questa era stata dotata, fra l'altro di 140 tomoli (ettari 35) di terreni. Essa venne coadiuvata da altri sacerdoti.
Ma fu nel 1622 che fu dato un ordinamento formale al Clero per l'assistenza alla Chiesa, fissandone ad otto il numero dei componenti cioè l'arciprete e sette sacerdoti partecipanti, cui fu assegnata una dotazione stabile, e con approvazione regolamentare pontificia conferita da apposita Bolla dell'Aprile, di Papa Gregorio XV (Ludovisi).
La dotazione sul principio esigua, 24 ducati, fu costituita al preedetto Clero dalla stessa pia opera di S. Maria di Loreto, che poi gliela accrebbe notevolmente, finché quel clero stesso poi ne fu elevato alla dignità di Capitolo collegiale insignito in numero di dodici canonici di nomina vescovile nel corso del 1700.
Ma i nostri antichi, con quella ricchezza messa insieme con tanto fervore di fede sotto l'auspicio della Madonna di Loreto lasciarono una ben più vasta orma stampata presso i posteri, prima nella scrupolosa conservazione di quel sacro patrimonio che così poté pervenire quasi intatto ai nostri tempi nei quali fu per le leggi trasformato, non so se bene o male, in patrimonio della congregazione di carità, e poi, ed assai più forse, nella ricostruzione e nell'ampliamento della Chiesa madre oltre all'altra precedentemente compiuta nel tempietto votato alla Madonna predetta.
E fu appunto verso la seconda metà del secolo 1600 che dové sorgere imperioso il bisogno di restaurare quella Chiesa, di ricostruirla anzi quasi ab imis fundamentis. Perché due luttosissimi avvenimenti s'eran succeduti in quell'epoca e cioè negli anni 1656 e 1657 che, desolando il paese, avevano inquinata la salubrità degli edifici, e della Chiesa specialmente, la quale era stata pure contaminata col sangue d'un ministro della fede, sparso sacrilegamente e compromessa la santità stessa del tempio.
Quei due funesti avvenimenti trovansi sommariamente rammemorati nel Registro parrocchiale impresa dall'Arciprete Carfagna del quale ho fatto cenno. Il primo fu la pestilenza della estate del 1656, quella peste che desolò tutto il Regno di Napoli non meno di quella che sedici anni innanzi aveva desolato la Lombardia, tanto nota per quel che ne scrisse il Manzoni; la seconda per una irruzione improvvisa di una numerosa compagnia di briganti in un giorno dell'estate 1657 che fecero man bassa su quanto potettero.
Circa le peste si ricorda che, importata nel Reame dalla Sardegna, si diffuse violentissima. Il primo caso dell'epidemia in paese s'ebbe il 4 Agosto 1656 in persona di Giambattista Di Nucci, per infezione presa certo in paese contermine, e il contagio si propagò con rapidità e con violenza tali che in quaranta giorni vi perdettero la vita 1.126 abitanti, e il paese tutto non ne contava forse duemila. Ultima vittima fu Isidoro Mosca il 13 Settembre. Nondimeno, attesta l'Arciprete Carfagna, a tutti i morti poté esser data sepoltura, di tutti furon segnati i nomi, probabilmente molti potettero avere gli ultimi conforti religiosi. Ma ne fu perciò preso anche lo stesso Arciprete e solo dopo lunga convalescenza poté riaversi. Non si riebbe però il suo sostituto nel pietoso ufficio, Francesco Di Nucci. N'ebbero lode dal loro Vescovo Giambattista Ferruzza.
Ora è facile figurarsi quale sgomento si fosse propagato nelle famiglie, quante cose fossero abbandonate o distrutte, quanto disordine nelle abitazioni! Fu allora, m'è dato di credere, che dovettero andar disperse o distrutte tutte le memorie dei tempi anteriori, specialmente le carte e le pergamene. In quella peste perì la piccola popolazione del Casale di S. Nicola della Macchia che fu da allora del tutto abbandonato, come attesta anche il Perrella nelle "Effemeridi del Molise".
Quanto all'altro funesto avvenimento che seguì alla peste, l'Arciprete Carfagna stesso segnò nel suo "Catalogus notabilium" come il 9 luglio dell'anno appresso 1657, verso le 8 del mattino, irruppe inaspettatamente in paese una numerosa comitiva armata di quei banditi, o meglio assassini, che in quei tempi scorazzavano indisturbati pel Reame di Napoli, i quali subito si dettero a invadere le case depredandole, ed uccidendo coloro che osavano opporre resistenza. S'impadronirono di Amico Pettinicchio, forse noto come il più ricco del paese e lo rilasciarono quando n'ebbero ottenuto il prezzo del riscatto. Entrarono in Chiesa, dove un sacerdote vecchio d'80 anni, Tobia Campanellì, celebrava messa sull'altare della Trinità. Si ricordava in famiglia che questi, all'udire lo strepito del loro ingresso e del popolo piangente che li seguiva si volse gridando: «Pace fratelli». Ma scorgendoli, sordi al suo grido, intenti a manomettere i sacri arredi di valore, non esitò a redarguirli animosamente, fiducioso forse nei sacerdotali paramenti che indossava e del suo santo ministero, al che uno degli assassini gli esplose quasi a bruciapelo un colpo d'archibugio e il vecchio cadde esanime sulla predella dell'altare cospargendola del suo sangue immacolato, fra le grida d'orrore degli astanti e il pianto delle donne.
Il bottino portato via da quei manigoldi fu valutato in circa 30.000 ducati ossia 130.000 lire oro, tra suppellettili, danaro, oggetti preziosi, forse pure bestiame. La compagnia dei banditi era composta da 104 individui, a capo di essa era tal Paolo Fioretti, calabrese e conduttori n'erano pure tali Peppe Nastro e uno soprannominato Boccasenzossi. E si vantarono d'andare in giro per l'onore non per danari né per donne. Tutto ciò fù riassunto nel cenno del Carfagna, e infatti questo annota che fu salvo l'onore delle donne nella invasione.
Non passò molto però che quasi tutti furon catturati e giustiziati, come meritavano.
Da questi eventi dolorosi e inaspettati il paese tutto resto decimato e sconvolto. Il numero dei fuochi che nel 1652 ascendeva a 254 scese a meno di 150, la casa dei Pettinicchio non si riebbe dal grave colpo patito. Ma l'insieme della popolazione si riebbe presto: molti matrimoni riempirono i vuoti formatisi nelle famiglie, e un nuovo ardore di fede sembrò risorgere in coloro che erano scampati alla morte, ai pericoli.
Luigi Campanelli
Fonte: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931.