Sono stato minuzioso un po' troppo forse nello intrattenermi sulle successioni dei feudatari; ma è da considerare che ad esse sono associate le manifestazioni di vita della nostra popolazione in quei tempi. Avvertendo prima che questa non era in principio raccolta in unità; ma sparsa in piccoli e negletti agglomerati di rustici casolari nelle varie parti del territorio. Infatti ciò rilevasi, oltre che dalle vestigia ormai informi di quegli agglomerati, dai documenti già dinanzi ricordati, ossia l'Elenco delle Baronie dell'epoca normanna (1189); la Cedola delle Sovvenzioni dell'Angioina (1320) i Registri delle Adohe (1507) e posteriori.
Queste parti, feudalmente ripartite, erano quattro, cioè: Vallesorda; Monteforte; Macchia Strinata o Spineta; Capracotta. Nel 1507 apparve la quinta con Ospedaletto; nel 1568 una sesta con Cannavina e Cannavinelle; Capracotta dunque in principio non fu che l'espressione di una rustica località al pari delle altre.
Il complesso dei minuscoli abituri in queste parti sopravvisse col nome di Casali. Né soltahto il nostro territorio era diviso così: molti altri abruzzesi lo erano. Ho riportato ad esempio i nomi dei vari Casali di S. Pietro Avellana. Sulle porte di bronzo di Montecassino trovasi menzionato Pescocostanzo «cum tredicim cellis et villis suis» le quali non erano che analoghe suddivisioni di quel territorio.
I signori nominati a reggere queste parti non vi tennero mai soggiorno: è da supporre che loro agenti venissero a trarne militi, tributi, bestiame: forse anche a sedare contese fra la povera gente.
Secondariamente sono stato minuzioso sui Baroni del 1500, 1600, 1700 per mettere in rilievo le crescenti invadenze e i soprusi, loro consentiti dallo stesso potere Regio.
Né per giunta mi par superfluo annotare il fenomeno che capostipiti di cospicui casati Napoletani sorgessero a contendersi la signoria del territorio nostro. Perché, allora, andavo domandando a me stesso: quale poteva essere la ragione intima della loro aspirazione al dominio d'una regione montuosa, fredda, sterile; d'un paesello di umile gente, fino ad ambirne il titolo di Barone, di Conte, di Duca? Ebbene, le mie modeste indagini suggeriscono che la ragione precipua era questa che il territorio tutto di Capracotta offriva pascoli eccellenti per l'alpeggio del bestiame, specialmente ovino, ed attesoché una delle prime fonti di reddito di quei signori erano appunto le grandi masserie armentizie, essi avevan motivo di disputarsi i luoghi più propizii per condurvele. Prova se n'ha ad esempio che nei capitoli matrimoniali di Aurelia d'Ebulo, rogati dal Notar Castaldi il 10 Marzo 1582, tra i cespiti dotali, è annoverata la masseria armentizia valutata ben 13.000 ducati ossia 55.000 lire e più oro, ed è da credere quindi fosse costituita da quattro a cinquemila capi. Prova n'è pure la maggior valutazione data a Capracotta in confronto di Castropignano e di Civitanova come ho accennato nella nota 106. Maggior prova si trae poi dalle ripetute contestazioni levatesi fra l'Università di Capracotta contro i Duchi Piscicelli, pei tentativi di costoro di stendersi prepotentemente con le loro greggi sulle terre nelle quali pascevano quelle degli abitanti, come riferirò in seguito.
Singolarmente delle varie parti del nostro territorio mi convien ricordare: che Vallesorda, quale feudo ecclesiastico dei Cassinesi esteso circa 1.800 tomoli (Ettari 600), non subì ulteriori molestie essendo Montecassino ognora «Neapolitani Regni primus Baro». I suoi primi abitatori, come ho esposto innanzi, vi avevano eretta una Chiesuola dedicata a S. Nicola e che probabilmente era un tempietto ed un Eremitaggio insieme. Di essa non è rimasta pietra su pietra, e mentre qualche vestigio segna ancora il posto ove fu l'Eremitaggio di S. Giovanni Battista sul Montecapraro, della Chiesuola predetta, dei Casolari, se v'eran dappresso, si sarebbe perduta ogni traccia se la loro ubicazione non si trovasse indicata nella "Pianta Topografica dell'intera Tenuta di Vallesorda soggetta alla Badia di Montecassino" rilevata nell'Ottobre del 1773 dall'Agrimensore Michele della Croce di Agnone per incarico ricevutone nella contesa che da tempo si agitava fra i Cittadini di Capracotta e la Badia stessa pei terraggi da questa pretesi. Da quella Pianta si scorge che quella Chiesa era posta sui declivio fra la mulattiera che mena a Vastogirardi ed un fontanina sulla rotabile verso il bosco di Vallesorda. Sotto alla rotabile un ampio e lungo avvallamento declina verso est in cui talvolta si formano dei laghetti. Non è improbabile che il franamento di questa distesa di terreno abbia provocato un tempo la ruina e la scomparsa degli edifici succennati. Credo che ciò dovette avvenire nella seconda metà del 1200, ricordando che nell'istrumento di componimento della vertenza pel vestiario dei Monaci del 1294 fu rilevato che la Chiesa era stata abbandonata dai Monaci stessi, ma le ruine fossero ancora visibili sulla fine del 1700.
Sulla sommità del bosco di Vallesorda si stende una radura o meglio prateria cinta tutta da un gran muro formato di grossissimi macigni bene e saldamente collegati a secco; un saggio insomma delle mura ciclopiche, che si incontrano in tante parti d'Italia, specialmente meridionale.
Resta ignota la prima destinazione di quel recinto. Una tradizione, udita quando ero fanciullo, la ricordava come un luogo di raccolta nella notte delle giumente coi loro allievi ed i cavalli, per sottrarli all'assalto dei lupi. Parrebbe dar peso a questa tradizione il nome di Monte Ippone (dal greco Ippos, cavallo) in documenti antichi e di Cavallerizza, con cui viene indicata tuttora quella sommità di Monte.
Monteforte, dal tempo che fu in dominio dei Borrello, poi dei d'Ebulo, quindi di Caracciolo, dei Cantelmo, del delli Monti trovasi quasi sempre indicato qual feudo abitato. Confusi ammassamenti di pietre rivelano ancora la preesistenza di miseri abituri; forse erano Trulli messi su senza malta.
Ma quel che c'è da annotare riguardo a questo feudo è che da esso fu distaccato un buon tratto di territorio verso oriente, che prendeva nome, dal suo Casale di S. Maria Caprara, o S. Maria del Montecapraro, ed aggregato all'agro di Agnone, ed è quello che oggi si designa col nome di Montagna Fiorita, o Colle Fiorito. Ciò si desume fra l'altro da un "Ristretto dei fatti sostanziali incontrovertibili nella causa dell'Università di Agnone con l'illustre Principe di S. Buono, redatto in Napoli il 2 Gennaio 1751" e dalle "Ragioni per l'università di Agnone" per la causa stessa stese ivi nel 14 giugno 1757, citate dal Minieri Riccio.
In questi documenti si asserisce come premessa che, per «concessione ottenuta nel 1446 dei provventi giurisdizionali (ossia demanialità) da Alfonso I d'Aragona, l'università di Agnone aveva acquistato alcuni feudi disabitati, e fra questi nel 1484, il Castello di S. Maria del Monte Capraro cum aquis quarumque decursibus principali le acque del Verrino, che, per la sua larghezza media di palmi dieci e la profondità media di mezzo palmo, fosse da considerare come un rivo e non come un fiume. Che esso, traendo origine da tre sorgenti, una detta fonte delle Moree, un'altra detta delli Cimenti, e l'altra propriamente del Capo di Verrino, tutte giacenti in S. Maria di Montecapraro, scorre attraverso territori demaniali e feudali della Università di Agnone, i quali ultimi eran passati da Prospero Colonna ai Gonzaga» e successivamente ai Carafa, ai d'Aquino, ai Caracciolo; e di questi, l'ultimo, Marino, nel 1698 s'era impadronito delle acque, onde l'Università aveva fatto ricorso nel 1736 al Sacro Regio Consiglio per esserne reintegrata in possesso.
Ora qui si capisce che il vantato acquisto della Regione di S. Maria Caprara, di cui si tacciono il venditore, le circostanze e l'atto del trasferimento, non potette avvenire che per fatto arbitrario e di sorpresa. Si capisce che, per esservi un Castello, era stato abitato un tempo; che per la contiguità e continuità di piano livellare con Monteforte doveva aver fatto parte del territorio di Capracotta, circostanza questa avvalorata dal fatto che la Città di Agnone non dissimulava il proposito di stendere l'estensione del proprio agro fino alle sorgenti del Verrino ed alla fonte dei Cimenti, ostentandone la antecedente padronanza fino a chiederne la manutenzione in possesso con tutto che dalla lamentata turbativa (1698) al primo ricorso (1736) fossero corsi quasi quarant'anni!
Però se arrivò ad ottenere l'annessione della parte di quel territorio fino al torrente che è restato col nome di Vallone di S. Maria Caprara, non riuscì a spuntarla con la restante parte alle sorgenti predette. Non è improbabile che Marino Caracciolo o il suo successore, signore anche di Monteforte e Capracotta, avesse contribuito presso il S. R. Consiglio a dare, come suol dirsi un colpo alla doga ed uno al cerchio, soddisfacendo Agnone con la concessione di S. Maria Caprara, e Capracotta col lasciarla padrona del corso superiore del Verrino e adiacenze.
Così l'estremo limite del nostro territorio verso sud-est restò nel punto di confluenza del torrente suddetto col Verrino, che vi formano entrambi delle pittoresche cascatelle. Ivi era un altro molino detto del Signore, che un tempo aveva unita una gualchiera e macchine per apparecchi di pannilana. Detto così forse perché era stato fatto costruire da qualcuno dei d'Ebulo o dei Caracciolo, o forse anche da Capece Piscicelli. Certo questi ultimi ne percepivano emolumenti di cui si lamentavano gli utenti come troppo onerosi.
Nel secolo XIX detto molino divenne proprietà privata, e sulla fine di esso fu, dai possidenti fratelli Paglione, ceduto alla Società elettrica del Verrino costituitasi in Agnone, la quale ne derivò un canale animatore dell'energia per la illuminazione della città e per la trazione delle vetture sulla tramvia Agnone-Pescolanciano.
Macchia, indicata nel medio Evo col nome di Maccla Spinetarum e di Maccla Strinata, ebbe il suo piccolo centro abitato sull'altura del Monte di San Nicola, ove se ne scorgono le vestigia. Sottoposta un tempo feudalmente a tal Roberto (1189) come ho cennato, l'ebbe circa 60 anni dopo Andrea de Sully, poi Riccardo Anibaldi (1270); poco appresso qualcuno dei Carafa; quindi pervenne ai d'Ebulo, i quali le aggregarono le limitrofe zone selvose di Cannavina e Cannavinello.
Dalla Numerazione dei fuochi del 1522 e dalle posteriori emerge che la piccola popolazione ivi residente era considerata quale frazione di Capracotta. Infatti in quella Numerazione trovasi inscritto il nome di Dominicus de Verrone quale Arciprete della Macchia, e nell'altra del 1561 trovasi, con la stessa qualità il nome di Ioannes de Arcangelo de Rentio.
Gli scarsi abitanti furon decimati poi dalla peste nel 1656 (di cui tratterò in seguito) e le casette abbandonate e distrutte, come annota il Perrella (Effemeridi del Molise, 29 Novembre).
Osservando dall'alto la configurazione delle mura lungo il pendio sottostante, come ne son restate le vestigia, mi parve di scorgere in esse degli ampi recinti per raccolta di bestiame ovino, anziché resti di abitazioni umane. Queste probabilmente si trovavano sulla sommità stessa del Colle di S. Nicola dove mi vennero innanzi delle sepolture scoperchiate ed ossa umane che le bagna la pioggia e muove il vento! triste spettacolo!
Andando in giù verso oriente trovasi la località della fonte del Romito, di cui mi sono a lungo intrattenuto nelle Note Archeologiche.
Verso nord-est il dorso del Colle di S. Nicola precipita a picco sull'avvallamento del bosco Cannavinello.
Quanto a Capracotta ho già rilevato come attraverso al buio storico del suo tempo antico, apparisse quale denominazione in principio di località, prima che di centro abitato, cioè quella plaga accosto al Vallesorda data al Monastero di S. Pietro nel 1040 da Gualtieri Borello («per finalità dei Capracotta» dice quel testo) fino ai territori di Castelgiudice, di Pescopennataro, di Macchia Strinata.
Ho notato pure che, qual luogo popolato, trovasene una prima menzione nel Catalogo baronale del 1189 da cui emerge che la popolazione vi era tanto scarsa da offrire un solo milite al delegato della sua giurisdizione militare Gualtiero Budone.
E qui conviene aggiungere che, sia per la ragione che i primi feudatari insediati dai carolingi, dai normanni, dagli svevi disdegnassero la signoria stabile di così remoto e povero luogo montano come il nostro, sia perché questo restasse ignorato e quei nostri progenitori rifuggissero dal richiamarne l'intervento ed il loro governo, certo nessuna menzione di formale investitura feudale di Capracotta trovasi anteriormente a quella aragonese del 1487. Né vestigio di diruto Castello ne lascia lontanamente supporre l'esistenza più antica. Invece sulla maggiore altura all'abitato fu riservata un'ampia area per edificarvi una Chiesa; ed è da credere che quegli antichi vi si andassero lentamente e tacitamente raccogliendo, costruendovi i loro abituri intorno poi vi accorresse la gente sparsa in altri Casali dei dintorni, prima forse quella di S. Nicola di Vallesorda per la ruina anzi cennata. Attrattiva dovette essere la posizione del luogo, prestantesi da più lati a sicura e facile difesa da incursioni frequenti dei tempi. Perché da nord ovest era protetta da inaccessibili dirupi e dalla parte orientale da scoscendimenti che essi completarono con mura, forse anche per consolidare le sovrastanti case: e poi chiusero con porte, addossate a torri, i due ingressi estremi. Anguste viuzze traversarono l'insieme dall'abitato, come ancora si vedono. Una delle torri fu poi demolita, e, su quella che ci restò verso nord, era un arco (ora chiuso da casa addossatale) che probabilmente serviva di vedetta. Le mura impostate come contrafforti, e sotto alle quali col tempo si stesero nuove case, restarono col nome di Rinforzi nei Registri parrocchiali della popolazione nel XVII e XVIII secolo, confermando col nome la primiera destinazione.
La casa baronale sorse fuori l'ingresso dall'abitato, chiuso dalla torre predetta, nel 1500 giusta quanto ho riferito a innanzi e che dette motivo alla denominazione di Capracottæ Castrum.
È da credere quindi che la signoria di Gualtieri Budone o Sodano non fosse formalmente feudale. E fosse invece una delegazione di giurisdizione militare e giudiziaria e tributaria. Ad ogni modo, poiché la popolazione s'era andata concentrando ed accrescendo stabilmente, avvenne che il territorio circuente più dappresso il paesello seguisse l'evoluzione delle terre consimili nello svolgimento dei rapporti contrastanti tra feudatari e centri abitati, per cui venne ad essere considerato trasformato in Demanio popolare o Comunale, vale a dire che l'uso e la destinazione veniva assunta dalla Comutità, ed il feudatario ne conseguiva dei privilegi tra cui il titolo e provventi diversi, con l'obbligo di provvedere al governo deila Comunità stessa.
Luigi Campanelli
Fonte: L. Campanelli, Il territorio di Capracotta. Note, memorie, spigolature, Tip. Antoniana, Ferentino 1931.