«E allora che facciamo? Apriamo un nuovo centro di trapianti del fegato solo perché l'ospedale di Capracotta ha mandato un chirurgo a imparare a Parigi o in America? Sovraccarichiamo di spese un ospedale che, magari, non ha nemmeno i soldi per comprare lenzuola e siringhe? Io dico: prima facciamo funzionare i centri che ci sono, poi chiudiamo quelli che eventualmente non funzionano e solo allora, se ne vale la pena, apriamone di nuovi. E invece ora si vogliono nominare nuovi esperti, aprire nuovi centri, regalare un fiore all'occhiello per un chirurgo, un ospedale, una città. Evidentemente c'è qualche favore da fare. Io, invece, ho sempre considerato il trapianto una cosa seria».
Il professor Nicola Dioguardi, epatologo di fama mondiale, presidente della Commissione nazionale per il trapianto del fegato, non ci sta. In una lettera al professor Alessandro Beretta Anguissola, presidente del Consiglio superiore della sanità, ha scritto: «Apprendo che Ella intende chiamare nuovi esperti di cui la Commissione non ha mai sentito la necessità. Poiché ritengo non giustificato l'aumento numerico dei centri di trapiantistica... La prego di considerarmi dimissionario». E dal suo ufficio di direttore dell'Istituto dell'Università di Milano tuona: «Io lì dentro non ci torno più: ho sempre lavorato nell'interesse del Paese, della Medicina. Se ci sono altri interessi da soddisfare io dico no; fate voi».
Ma perché, quello che «a chi non se ne intende» sembra un vantaggio per i malati (nuovi esperti, nuovi centri) è così grave da giustificare le dimissioni di «uno che se ne intende» come Dioguardi?
«Un paio d'anni fa mi chiamano; c'è da razionalizzare il problema dei centri di trapianto di fegato – risponde Dioguardi – Sono sei: due a Milano, due a Roma, uno a Bologna, uno a Genova. La Commissione di cui sono coordinatore imposta la questione in termini economici: c'è un input (i fegati da impiantare) e un output (i successi ottenuti). Il ministero non si occupa dei trapianti sul piano economico: non dà una lira, insomma. Concede soltanto l'autorizzazione a farli. Questo significa che per ogni intervento si sottraggono 80 milioni al resto della spesa sanitaria. In queste condizioni il lato economico del problema non si poteva ignorare. E così abbiamo visto il trapianto di fegato come un'impresa. Obbiettivo: trovare il punto di massima redditività. Lo abbiamo individuato in 30-40 interventi l'anno per ogni centro. Bene, finora solo Milano, con il centro dell'Ospedale maggiore, ha raggiunto lo standard prefissato: siamo a 28-29 trapianti l’anno. Bologna ha incrementato, ma non abbastanza. Gli altri sono tutti giù».
Dioguardi aveva previsto un altro anno di lavoro concentrato sui centri esistenti prima di arrivare a una di queste conclusioni: ha raggiunto l'obiettivo e può continuare a lavorare; non funziona come dovrebbe e allora lo chiudiamo e valutiamo se e dove aprirne un altro. Già questo gli aveva scatenato una campagna ostile («a ogni congresso cui partecipavo c'era qualcuno che mi aggrediva perché voleva un centro nella sua città senza tener conto dei problemi di organizzazione, di efficienza, di produttività, delle conseguenze su tutte le altre attività sanitarie»).
Lei accusa gli altri di campanilismo, ma è un'accusa che potrebbe essere rivoltata contro di lei...
«Ridicolo: basti pensare che mi sono opposto all'apertura di un centro per trapianti di fegato all'efficientissimo Istituto dei tumori della mia Milano per ragioni di opportunità e scientifiche (sarebbe stato inutile)».
Qual è, oggi, la procedura per un trapianto?
«Quando viene a disposizione un donatore si avvisano i centri. Sulla base delle caratteristiche dei pazienti in attesa si decide dove inviarlo. Il problema non è che non si fanno abbastanza trapianti perché non ci sono centri sufficienti. È un problema di organizzazione di quelli esistenti. Non riusciamo nemmeno a farli lavorare a pieno regime... Aprire altri centri solo perché fanno comodo a qualcuno non solo è inutile, ma anche dannoso per altre categorie di malati».
Professore, questa volta ha sparato alto...
Dioguardi è amareggiato, deluso, ma non ha penso la grinta: «A proposito – dice alla segretaria – si informi, per favore, se la mia lettera è arrivata al ministero...».
Francesco Cevasco
Fonte: F. Cevasco, Trapianti, sprechi e favori, in «La Stampa», CXXII:279, Torino, 15 dicembre 1988.