La moderna storiografia è quasi del tutto concorde nel far risalire le origini ideologiche del fascismo nella contemporanea presenza, tra le diverse correnti di pensiero, del decadentismo, del futurismo, del sindacalismo rivoluzionario e del sentimento di frustrazione, interno agli ambienti del nazionalismo italiano, derivante dalla cosiddetta vittoria mutilata. L'arma con la quale il fascismo si impose all'Italia fu lo squadrismo ma, dopo il 1921, esso cominciò il proprio iter di legittimazione attraverso un'azione propedeutica: la capillare costituzione dei Fasci italiani di Combattimento in ogni comune d'Italia con la relativa inaugurazione del cosiddetto gagliardetto.
A Capracotta, all'indomani della conclusione della Grande Guerra, il concittadino Giovanni Paglione (1867-1941) aveva presto dato notizia della fondazione del Circolo "Cesare Battisti" in favore dei reduci; poi, sul finire del 1922, nacque il locale Fascio di Combattimento, alla cui segreteria sedeva inizialmente Francesco Paglione (1898-1958), giovane medico capracottese figlio del succitato Giovanni. L'inaugurazione del gagliardetto avvenne invece domenica 7 ottobre 1923 attraverso una grandissima adunata che coinvolse i direttòri di molti comuni limitrofi. L'obiettivo era quello di «ridare a Capracotta quella nobile e signorile fisionomia di civica correttezza che da un decennio di ignominioso sgoverno della cosa pubblica era divenuto un mito sperduto nella notte dei tempi e della leggenda».
In quella splendente domenica autunnale giunsero quattro camion con a bordo tantissimi fascisti, che subito affluirono per le strade di Capracotta; ad ogni arrivo i ragazzi erano ricevuti dal Manipolo Capracottese con tanto di fanfara preceduta dalla squadra a cavallo e dalla squadra di skiatori. A presenziare a quella che doveva essere una prova scenica del fascismo montanaro c'erano tantissime autorità, dal seniore Ottorino Iannone, console della 131a Legione, all'avv. Eugenio Iannone, dal prof. Giovanni Cuccumo all'avv. Domenico Di Tullio, dal ten. Corradino Terreri all'avv. Giovanni Tirone. Intervennero alla parata i manipoli di S. Pietro Avellana, Vastogirardi, Pagliarone, Castel del Giudice, S. Angelo del Pesco, Pescopennataro, Carovilli, Roccasicura, Pescolanciano, Sessano del Molise, Civitanova del Sannio, Forlì del Sannio, Rionero Sannitico, Acquaviva d'Isernia, Agnone e Belmonte. Questi reparti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale erano guidati dai decurioni Biagio Pecorelli, Francesco Zacchia, Eliseo Percario, Felice Liscia, Ido Vento, Sestino Melaragno, Felice Andrea Cerimele, Pasqualino Conti, Giuseppe Falconi e Gennaro Carnevale, futuro sindaco di Capracotta nel dopoguerra. Il servizio sanitario venne invece affidato al dott. Emanuele Bardare, ufficiale medico della 1a Coorte che impiantò per l'occasione un posto di pronto soccorso al Rione Grilli, da dove partì la sfilata.
Il grosso della festa doveva ancora venire. Giunsero infatti a Capracotta tutti i membri della Federazione fascista, a partire dal proconsole cav. David Lembo, capo indiscusso del fascismo molisano, ovvero segretario federale del Partito nazionale fascista. Durante l'austera cerimonia fu consegnata dal capitano Livio Di Nardo una medaglia d'argento al valor militare al padre di Pasquale Giuliano (1893-1918), un eroico giovane capracottese morto in combattimento e disperso a Ponte Metali in Albania. Ovviamente non mancò il tipico saluto a tutti i 64 caduti capracottesi - «Presente!» - a partire dai primi tre morti in operazioni belliche: Giuseppe Di Tanna (1894-1915), Michelangelo Campanelli (1890-1915) ed Enrico Monaco (1895-1915).
Venne finalmente inaugurato il gagliardetto, «in fondo nero e diagonale tricolore, fu dono generoso e spontaneo della distinta famiglia del signor Giovanni Fiore, operoso ed industre artista che pur oltre l'Oceano, nelle lontane Americhe, sente e segue il palpito e la passione della Patria; e l'ispiratrice e la realizzatrice dell'offerta fu l'amatissima sua figliuola sig. Mena, nel cui giovane cuore si ripercuote l'attaccamento del padre al paese natio e palpita l'amore più vivo per il sacro suolo e per il bel cielo d'Italia».
Furono infine sparate diverse «bombe pirotecniche annunzianti l'inizio della bella festa; le vie del paese si animano vivamente e le mura delle case sono ricoperte di cartellini multicolori inneggianti a S. M. il Re, a S. E. Mussolini, agli eroici caduti, al cav. Lembo, al comandante della Legione "Matese", al comandante della Coorte "Aquilonia"». Difatti, ai muri del paese, da alcuni giorni era affisso un manifesto del Fascio di Combattimento locale che preannunciava l'evento e sul quale si leggeva:
Cittadini! Domenica, 7 corrente, sarà consegnato il Gagliardetto alla nostra fiorente Sezione. Il Fascismo travolgente e trionfatore, che non lascia insensibile nessun animo di vero italiano, abbattute le cinte delle rocca dagli innominati, porta la sua fede pura nella nostra rocciosa Capracotta, che fu esempio di abnegazione in ogni tempo per le sorti gloriose della nostra Patria, ad onta degli infidi elementi che tentarono corrompere l'anima eroica. Si ispirino i cittadini alla nuova fede, ne comprendano la forza e la bellezza, e - raccolti tutti in un solo palpito di fede, di Patria, d'indipendenza, di rinnovata Giustizia, di ribellione a quanti ardirono ritentar la tratta degli schiavi - ascoltino il grido possente che il Gagliardetto lancerà garrendo ai nostri venti Appenninici: "Ex altis ad altiora evoco!".
La festa terminò in un tripudio di saluti romani e di evviva al Duce: «nel complesso - scrisse il Paglione - una giornata attiva piena di gloriosa esultanza e di commozione intensa, esuberante di superbe soddisfazioni morali che lasceranno una traccia luminosa nella storia del nostro paese».
Un telegramma inviato nel febbraio 1926 da Filiberto Castiglione, Giovanni Tirone ed Ottorino Iannone a Roberto Farinacci, segretario generale del Partito nazionale fascista, recitava: «Tutta Capracotta scomparsa ogni divisione personale». Non era vero. Al di là della cerimonia del gagliardetto, il fascismo capracottese fu piuttosto litigioso e non mancarono quelle diatribe familiari che avevano caratterizzato il decennio precedente e che caratterizzeranno il primo dopoguerra. Anzi, negli anni del Littorio si acuirono tutti quegli odi familiari che si concretarono in espulsioni dal Partito, in ammonizioni, in rapidi avvicendamenti al ruolo di podestà e all'interno dello stesso direttorio del Fascio, in scaramucce più o meno pesanti che divennero la quotidianità, una quotidianità lontanissima dalle esigenze del popolo, come invece chiedeva Mussolini. Nel Ventennio capracottese furono comunque completati i lavori di realizzazione della rete fognaria e vennero portate avanti tante attività di supporto ai caseifici, alla cultura e agli sport invernali.
Per quanto concerne un giudizio generale sul fascismo, questo non può che scaturire dalla storia stessa ed è oggettivamente disonorevole. Mussolini e il fascismo hanno approvato le leggi razziali e ci hanno condotti in una tragica e inutile guerra. Il resto è folclore.
Francesco Mendozzi
Bibliografia di riferimento:
P. Alatri, Le origini del fascismo e la classe dirigente italiana, in «Belfagor», V:4, Firenze, 31 luglio 1950;
V. Di Nardo, Capracotta e la memoria della Grande Guerra: 1916-2016; Capracotta 2016;
E. Gentile, Il culto del Littorio: la sacralizzazione della politica nell'Italia fascista, Laterza, Roma 1993;
M. Giampaoli, 1919, Libreria del Littorio, Roma-Milano 1928;
F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. II, Youcanprint, Tricase 2017;
B. Mussolini, La mia vita, Rizzoli, Milano 2003;
G. Paglione, Tornano i giovani, in «Il Faro», I:7, Isernia, 10 aprile 1919;
G. Paglione, Dovunque un gagliardetto nero si levi, ivi è l'Italia, in «La Nostra Ora», III:29, Campobasso, 18 ottobre 1923;
G. Saluppo, Il Molise nel ventennio fascista, Blob, Campobasso 2012;
G. Saluppo, I comuni molisani sotto il simbolo del Littorio. Amministrazioni, podestà e politica nella costruzione del consenso, La Gazzetta, Campobasso 2015;
Uff. Stampa Pentarchia Fascista, I provvedimenti del Triumvirato, in «Le Aquile», III:4, Campobasso, 10 febbraio 1926.