«Plünderer müssen sterben!», ovvero: «i saccheggiatori devono morire!». È questo il titolo di un articolo apparso sulla "Hildesheimer Zeitung" il 27 marzo del 1945. Nell’articolo in questione si legge che era stato annunciato più volte, in una forma che non contemplava possibilità di equivoci, che il saccheggio veniva punito con la pena di morte. Nonostante ciò, nella notte precedente, nel corso di un’operazione di polizia condotta nel centro della città, erano stati arrestati alcuni saccheggiatori. Quattro di essi, stranieri, colti con le mani nel sacco, erano stati subito giustiziati, mediante impiccagione. Un altro, di cui si ammetteva, con rincrescimento, che era tedesco, era stato invece ucciso mentre tentava di fuggire.
La richiesta del giornale di ricorrere senza indugio alla forca per punire quanti fossero stati sorpresi a saccheggiare fu prontamente accolta dalle autorità locali. Nei giorni seguenti furono infatti più di duecento le persone impiccate, o passate per le armi perché si rifiutavano di salire sul patibolo. Si trattava, in massima parte, di internati militari italiani, che furono sbrigativamente mandati a morte con l’accusa di saccheggio.
Il massacro di Hildesheim non fu peraltro l’unico, poiché nelle ultime settimane
di guerra eccidi dalle caratteristiche analoghe si registrarono in varie località. Ad ondate, mentre
la Germania era ormai ridotta ad un cumulo di macerie, la furia omicida nazista si abbatté su migliaia di lavoratori stranieri, e quindi anche su alcune centinaia di ex internati militari italiani. Ad esempio, proprio mentre i «martiri di Hildesheim», come sono abitualmente ricordati, erano costretti a salire sul patibolo, il 31 marzo venivano uccisi settantotto italiani a Kassel, con l’accusa di aver assaltato un vagone merci che conteneva generi alimentari.
Agli inizi di aprile, un altro gruppo di ex internati italiani, fra i venti e i trenta, che provenivano, in parte, dal campo di rieducazione al lavoro di Lahde, furono massacrati all’interno del Seelhorster Friedhof, cimitero di Hannover. Il 23 seguente ci fu la strage di Nikel Treuenbtrietzen. Alle 13 di quel giorno, unità della Wehrmacht o delle Ss fecero irruzione nel lager di Sebalduschof di Treuenbtrietzen, nelle vicinanze di Berlino. Una volta entrati, presero gli italiani, circa centocinquanta, comunicarono loro che da quel momento non dovevano essere più considerati lavoratori civili ma internati, e infine li portarono nel giardino dove li fucilarono.
Le cause scatenanti degli eccidi furono molteplici, ma di sicuro vi concorse una direttiva generale, che autorizzava la Gestapo a passare per le armi tutti coloro che commettevano atti di sabotaggio, gli stranieri colpevoli di saccheggio e i prigionieri che tentavano di fuggire. Contestualmente, via via che la catena del comando si spezzava, poiché venivano colpiti i sistemi di comunicazione, gli organi di governo regionali non erano più sottoposti ad alcun controllo. E, di fatto, si ritrovavano investiti di un potere pressoché assoluto riguardo alle decisioni da assumere e alle azioni da compiere. Un potere che esercitavano senza indugi anche quando si trattava di adottare misure draconiane, poiché erano stati educati per anni al principio che anche il ricorso al terrore si rendeva necessario, talvolta, per il bene della «comunità di popolo»; erano stati indottrinati ad agire non avendo alcun dubbio di «fare sempre "ciò che era giusto" nel senso dell’ideologia nazionalsocialista». Ancor più che in tempo di pace, divenne «fonte di diritto», così, nello stato di incertezza generale provocato dalla guerra, il «sano sentimento del popolo». Sentimento a cui ci si appellava per sentirsi legittimati a compiere i massacri più orrendi.
A questa componente di carattere sistemico, bisogna poi aggiungere un fattore di ordine esistenziale. Per molti tedeschi, fossero essi ai vertici dello Stato o nelle varie branche dell’amministrazione, membri della Nsdap o cittadini comuni, il crollo del Terzo Reich rappresentava una vera e propria catastrofe personale. Divorati dalla rabbia, dalla frustrazione e dalla paura per la propria sorte, perché l’ora della disfatta stava per scoccare, erano assetati di vendetta, accecati dalla volontà di farla pagare a coloro che ritenevano corresponsabili della loro sconfitta.
Uno degli ultimi fuochi di ferocia nazista divampò ad Hildesheim, una città della Bassa Sassonia, dove circa duecentotrenta italiani furono impiccati perché ritenuti colpevoli di essere dei saccheggiatori. Ad un esame ravvicinato dei fatti si scopre, tuttavia, che erano completamente innocenti. E ancorché non sia facile ricostruire come siano andate le cose, perché gli avvenimenti tragici della settimana santa di Hildesheim si verificarono nel contesto, davvero apocalittico, del crollo del Terzo Reich, se si incrociano i dati a disposizione (atti processuali, testimonianze, memorialistica) una verità fattuale emerge con forza. Una verità che può essere riassunta così: gli italiani impiccati non si erano macchiati di alcun crimine, ma furono uccisi per vendetta, perché erano i «traditori» del 25 luglio e dell’8 settembre; erano i «galoppini di Badoglio», i «maledetti divoratori di spaghetti», i «porci italiani». L’accusa di sciacallaggio con cui furono mandati a morte era completamente priva di fondamento. Gli italiani non avevano compiuto alcun saccheggio, ma erano stati autorizzati a prendere delle scatolette di formaggio bruciato dai soldati che erano di guardia ai magazzini di viveri della Wehrmacht, che erano andati in fiamme dopo i bombardamenti a tappeto degli anglo-americani del 22 marzo.
Emblematico è, in tal senso, il caso del sergente maggiore Francesco Paolo Potena, un eroe «semplice» dell’Italia profonda, l’Italia degli umili che fanno fino in fondo il loro dovere. La sua condotta attesta infatti, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli italiani si sentivano, ed erano realmente, innocenti. Confidando nel potere disarmante della verità, e sorretto altresì, da uomo religioso qual era, da una grande fede in Dio, Potena aveva creduto fino all’ultimo che sopravvivesse, in quelli che sarebbero stati i suoi carnefici, un granello di ragionevolezza e di umanità. E dunque, ancorché fosse stato avvertito da un altro italiano del fatto che le SS e la Gestapo stavano arrestando tutti coloro che venivano trovati in possesso di due o tre scatolette di formaggio bruciato, non aveva scelto di disfarsene, o di cambiar strada, come qualcun altro aveva fatto, salvandosi. Al contrario, con la buona fede e l’ingenuità che sono proprie delle persone che sanno di essere pienamente innocenti, aveva pensato di poter spiegare di non aver rubato o saccheggiato nulla, ma di essere stato autorizzato a prendere quelle scatolette.
Figlio di Leonardo Potena e Maria Giuseppa Sozio, Paolo, come veniva chiamato, era nato il 19 maggio 1910 a Capracotta, un paese evocato da Hemingway in "Addio alle armi". In apertura del libro, si incontra un cappellano militare che si rivolge ad un giovane ufficiale americano con queste parole: «mi piacerebbe che vedesse gli Abruzzi e andasse a trovare i miei a Capracotta». L’ufficiale promette di farlo, ma poi, rammaricato, comunica al cappellano di non esserci andato: «avevo desiderato andare negli Abruzzi. Non ero andato in nessun posto dove le strade fossero gelate e dure come il ferro, dove vi fosse un freddo sereno e asciutto e la neve fosse asciutta e farinosa e sulla neve peste di lepre e i contadini si levassero il cappello e vi chiamassero signoria e ci fosse una buona caccia».
Paolo Potena aveva cinque fratelli e una sorella, e faceva di mestiere il «negoziante in carboni». Era un uomo di una mitezza profonda, che aveva il dono della fede ed una innata fiducia nel prossimo. Basti ricordare che si recava a messa tutte le mattine e che, di norma, non controllava di persona a quanto ammontasse la quantità di legna o di carbone che consegnava. Si limitava a fare le consegne; dopodiché, fidandosi ciecamente, se ne andava e lasciava che fossero direttamente i clienti a compiere le operazioni di peso e a calcolare i relativi importi.
Nel momento in cui fu richiamato alle armi, il 4 settembre del 1939, per «esigenze militari di carattere eccezionale», Paolo Potena era un caporalmaggiore che, come si legge sul foglio matricolare, «aveva tenuto buona condotta» e aveva «servito con fedeltà ed onore». Era sposato con Nunziatina Ciccorelli, di Capracotta, ed era padre di una bambina di poco più di un anno, Giuseppina. Altri due figli sarebbero venuti in seguito: Lorenzo, nel 1940, e Michele, concepito durante l’ultima licenza e nato nell’ottobre del 1942, che non avrebbe mai conosciuto. Assegnato al 18° Reggimento artiglieria di divisione fanteria, con sede a L’Aquila, il 15 giugno del 1940 fu destinato al 51° reparto salmerie dell’Armata ovest, 26ª Divisione fanteria mobilitata. Arrivò in zona di guerra, in Albania, tre giorni dopo, ma il 21 settembre dello stesso anno ottenne una licenza illimitata straordinaria, «per avere alle armi due fratelli».
Di nuovo richiamato alle armi per «mobilitazione» presso il 18° Reggimento artiglieria Pinerolo il 2 febbraio del 1941, si imbarcò a Brindisi il 9 marzo successivo. Sbarcò a Valona all’indomani e venne poi assegnato al 1° Reggimento di artiglieria «Cacciatori delle Alpi». L’8 giugno del 1941 il suo reparto giunse in Grecia, dopo diciotto giorni e diciotto notti di cammino a piedi, con i muli, e fu mandato a presidiare un grande lago nei pressi di Kastoria, una città della Macedonia occidentale. Un compagno d’armi, che racconta di aver fatto più volte «l’abbeverata dei muli» insieme a Potena, lo descrive come un uomo «bravo», «calmo», «buonissimo», incapace di fare un rimprovero ad un suo soldato. In Grecia rimase fino agli inizi dell’anno successivo: il 3 gennaio del 1942 riuscì infatti ad avere una licenza straordinaria di «30+4» giorni. Durante il viaggio, incontrò allo scalo ferroviario di Karditsa, Igino Paglione, un soldato del suo paese. Rientrato al corpo, passando per Lubiana, il 7 aprile seguente, a distanza di qualche mese, il 25 luglio del 1942, fu promosso sergente maggiore.
Il giorno successivo all’8 settembre fu «catturato prigioniero di guerra dalle truppe tedesche nei fatti d’arme in Albania» e deportato in Germania. Dopo vari giorni di viaggio giunse a Wietzendorf, dove incontrò, in un grande campo di concentramento, dieci compaesani, fra cui, di nuovo, Igino Paglione. Insieme a quest’ultimo, il 25 settembre fu internato nello Stammlager XI B, 6068, di Groß Bülten, vicino a Groß Ilsede, circondario di Peine, nella zona di Hannover.
Al pari di molti altri prigionieri, Paolo Potena e Igino Paglione erano impiegati a riempire di sabbia a Groß Ilsede le gallerie di miniere, collocate a centoventi metri di profondità, da cui erano estratti materiali ferrosi. Erano costretti a lavorare come bestie, e per lo più in condizioni impossibili, per il freddo, la fame, i pidocchi, i maltrattamenti. Non ricevevano posta da casa, perché i tedeschi non consegnavano loro le lettere, ma non si perdevano d’animo perché erano sorretti dalla fede. Ogni sera recitavano il rosario.
Trattati come schiavi, nel periodo in cui rimasero a Groß Bülten erano talvolta utilizzati per sgomberare le macerie provocate dai bombardamenti nelle città vicine, come Peine o Hannover. Il 15 marzo del 1945, in seguito al massiccio bombardamento alleato in precedenza richiamato, furono trasferiti ad Hildesheim, ridotta ad un cumulo di rovine da rimuovere. Ad Hildesheim, furono alloggiati in una scuola, un edificio di tre piani che era fra i pochi ad essere rimasto in piedi. Il 22 marzo seguente, dopo un nuovo bombardamento a tappeto, anche la scuola fu colpita, sicché furono sistemati in due capannoni di una «fattoria agricola». Lasciati a digiuno per tre giorni, ricevettero un pasto caldo la sera della Domenica delle Palme, che quell’anno cadeva il 25 marzo. A distribuire una scodella di zuppa, una brodaglia con qualche pezzo di rapa, uguale per tutti, fu, come testimonia Paglione, Paolo Potena, che era un ufficiale, era un anziano del campo e, soprattutto, «era buono come non ve ne erano pari». Fu l’ultima volta che Igino Paglione lo vide, poiché il giorno seguente si ammalò e rimase nel suo pagliericcio. In quel tragico lunedì santo Paolo Potena fu invece arrestato e in seguito ucciso insieme a più di duecento altri connazionali con un’accusa infamante, ma totalmente priva di fondamento.
Il massacro di Hildesheim, che è un episodio, ai più sconosciuto, della gigantesca deportazione dei militari italiani dopo l’8 settembre, fu compiuto nell’arco di una decina di giorni, tra il 27 marzo e il 7 aprile del 1945. Ma le prime avvisaglie di un ricorso massiccio e indiscriminato al terrore da parte dei nazisti si ebbero nel febbraio precedente. Il 15 di quel mese la radio annunciò infatti che i reati commessi dai civili sarebbero stati giudicati, a partire da quel momento, da una Corte marziale.
L’adozione di un provvedimento così drastico fu giustificata con l’aumento dei saccheggi. Non si può escludere, in effetti, che negli ultimi giorni della guerra si sia registrato un accrescimento del numero degli sbandati sorpresi a frugare tra le macerie per procurarsi del cibo. Ma nel caso degli italiani non fu alcuna ruberia a condannarli alla forca, quanto piuttosto il convincimento, radicato in tutte le autorità locali del regime nazionalsocialista, che essi, prima perché responsabili di non aver dato, da alleati, alcun contributo ad una condotta vittoriosa della guerra, nel corso della quale, anzi, erano stati addirittura di impaccio, e poi perché traditori, erano doppiamente colpevoli dell’inveramento della profezia di Churchill. Ovvero del fatto che la Germania nazionalsocialista fosse ormai ridotta ad un «ammasso di rovine».
Churchill aveva impiegato questa espressione in un discorso tenuto agli ufficiali dell’Ottava armata, al Cairo, nell’agosto del 1942. Annunciando un piano di rilancio dei bombardamenti, Churchill aveva detto testualmente: «la Germania se l’è cercata questa guerra di bombardamenti... il paese sarà ridotto a un ammasso di rovine». La scelta di martellare le città tedesche con attacchi dal cielo sempre più massicci era stata approvata da Stalin, nel corso di un incontro che aveva avuto con Churchill, a Mosca, il 12 di quello stesso mese. Inizialmente, il «grande capo rivoluzionario» aveva attaccato Churchill, dicendogli brutalmente che gli inglesi avevano paura dei tedeschi. In risposta, il primo ministro inglese aveva ricordato la «battaglia di Inghilterra» e subito dopo aveva dispiegato una carta dell’Europa meridionale, del Mediterraneo e dell’Africa settentrionale, per far capire che cosa dovesse intendersi con «apertura del secondo fronte». A suo giudizio, non doveva necessariamente significare uno sbarco su una costa fortificata di fronte all’Inghilterra.
Per illustrare meglio il suo ragionamento, aveva disegnato un coccodrillo e con l’aiuto di questo disegno aveva spiegato che gli inglesi, insieme agli americani, avevano intenzione di «attaccare il ventre molle dell’animale, pur continuando a colpirlo sul muso duro». Stalin, a questo punto, aveva detto: «che Dio benedica questa impresa». E così, una volta ritornato a Londra, il primo ministro inglese aveva chiesto che fossero fatti tutti gli sforzi possibili per intensificare i bombardamenti. L’offensiva aerea fu in effetti rilanciata, ma non v’è dubbio che una vera e propria svolta nella battaglia per il dominio dei cieli, che si rivelò decisiva ai fini della vittoria finale degli anglo-americani, si realizzò con la Conferenza di Casablanca del gennaio 1943, quando Roosevelt e Churchill decisero di dare una priorità assoluta alla «campagna delle bombe».
L’impiego delle «superfortezze volanti» al fianco della Raf consentì a Churchill di tener fede a una promessa fatta ai londinesi nel corso della «battaglia di Inghilterra», quando aveva giurato solennemente vendetta. Nel corso della guerra la vendetta fu in effetti consumata, e con modalità spietate, come ammise lo stesso Churchill: «Il debito fu pagato in misura dieci volte, venti volte superiore, nei terribili bombardamenti continui delle città tedesche, i quali crebbero sempre più d’intensità con lo sviluppo della nostra potenza aerea, con le bombe che si facevano sempre più pesanti e gli esplosivi sempre più potenti. Certo, il nemico fu ripagato, e ad usura».
Come aveva riconosciuto Speer, i bombardamenti avevano trasformato la Germania in un gigantesco «secondo fronte». E, a suo giudizio, non v’era dubbio che quella dei cieli fosse stata «la più grande battaglia persa dai tedeschi». Un momento di svolta importante, in tale battaglia, fu rappresentato dall’autunno del 1944, quando gli attacchi aerei presero di mira il sistema delle comunicazioni. La rete ferroviaria fu spezzata e questo contribuì a mettere in ginocchio l’economia del paese. Sempre più isolati gli uni dagli altri, i diversi territori riuscivano a mala pena a sopravvivere, attingendo alle scorte predisposte per tempo. Contestualmente, si facevano sforzi immani per far fronte alle necessità belliche, dislocando, ad esempio, comparti della produzione in grotte, miniere di sale o grandi caverne di cemento, costruite, fra gli altri, dagli internati militari italiani.
Gli effetti dei bombardamenti si facevano sentire su una molteplicità di piani. In modo mirato, le bombe colpivano le fabbriche d’armi, riducendo, quando non impedendo del tutto, la produzione. Ma, oltre ad essere bersagli veri e propri degli attacchi aerei, le industrie belliche erano danneggiate in forma indiretta. Per riparare i danni dei bombardamenti venivano infatti distratte ingenti risorse e, naturalmente, questo significava avere a disposizione meno mezzi finanziari per fabbricare aerei, carri armati e cannoni.
Devastanti erano inoltre le ripercussioni delle bombe sullo spirito pubblico. Ancorché gli abitanti delle città tedesche dessero prova di una resistenza eroica, nell’ultimo scorcio di guerra a prevalere furono la paura, la rabbia e la rassegnazione. Sia che si trattasse di bombardamenti a tappeto delle «superfortezze volanti», che distruggevano uomini e cose, sia che fossero bombardamenti chirurgici, che colpivano, selettivamente, acquedotti, stazioni dell’elettricità, centrali del gas, depositi viveri, le conseguenze per i cittadini erano pesantissime. Tutti, indistintamente, combattevano una lotta disperata per la sopravvivenza, dopo notti insonni passate in alloggi sempre più precari, senza luce, senza acqua corrente e senza cibo.
Anche Hildesheim contribuì, per la sua parte, a pagare il debito con interessi da usura di cui parla Churchill. Nella primavera del 1945 la città era ridotta ad un cumulo di macerie. Tre ondate di bombardamenti, che si erano abbattute su Hildesheim il 3, il 15 e il 22 marzo, avevano sbriciolato quanto era rimasto ancora in piedi. Nel primo attacco, era stato preso di mira un vecchio caseggiato, chiamato Himmelsthur. Si trattava di un monastero, ma gli anglo-americani non avevano esitato a colpirlo perché erano convinti che nascondesse una sede militare. Una seconda incursione si registrò il 15 marzo, ma il bombardamento più distruttivo fu quello del 22 successivo, che fu sferrato da trecento aerei, durò tre giorni e di fatto rase al suolo l’intera città.
A colpire furono dapprima i cacciabombardieri, pare a gruppi di sette, che, fra le altre cose, abbatterono le due torri del Duomo. Fu poi la volta dei quadrimotori, i quali sganciarono bombe incendiarie che trasformarono la città in un grande falò. Fra gli edifici danneggiati in modo pressoché irreparabile vi furono una grande fabbrica, in cui venivano prodotti componenti di motori di aerei, e il lager 6001, formato da nove baracche, contrassegnate da lettere comprese fra la A e la I. Secondo alcune stime, la città fu distrutta per l’85-90%; secondo altre, più prudenti, per il 70. Le persone uccise furono un migliaio; i senzatetto 50.000.
Ad andare in frantumi, peraltro, non erano state soltanto le case, le chiese e i palazzi pubblici, ma anche le residue vestigia dell’ordine sociale nazionalsocialista. Oltre a disseminare morte e distruzione, gli attacchi aerei avevano infatti comportato una pressoché assoluta scomparsa dei beni alimentari primari e, in conseguenza di ciò, si era registrato un aumento degli episodi di saccheggio.
Per arginare il fenomeno, i funzionari locali del regime nazionalsocialista avevano deciso di adottare talune misure draconiane. Sui muri della città che non erano ancora crollati per effetto delle bombe vennero affissi, per iniziativa della Nsdap, dei manifesti con cui si lanciava un severo monito in dieci lingue. In italiano, l’avvertimento suonava così: «il saccheggio viene punito colla pena di morte». Che non si trattasse soltanto di una minaccia, lo si capì di lì a poco, quando il borgomastro della città, Georg Schrader, indisse una riunione di emergenza dopo lo sciame di attacchi aerei del 22 marzo.
Alla riunione in questione, che affrontò il problema del saccheggio, presero parte le massime autorità locali del regime nazionalsocialista. E fra queste il responsabile del circolo della Nsdap, Meyer; Heinrich Huck, SS-Hauptsturmführer; il maggiore di polizia Schmitz, con il capitano Ballauf e il dottor Fritz, primo procuratore. Sia il capo del partito, sia quello dell’amministrazione, sollecitarono in quella circostanza una repressione più dura nei confronti dei saccheggiatori. Aderendo alla loro richiesta, Huck promise agli altri membri dell’unità di crisi di impiccare senza alcun riguardo i saccheggiatori che fossero stati colti sul fatto. Il borgomastro dal canto suo rilanciò, suggerendo, come misura di dissuasione, di impiccare pubblicamente nella piazza del mercato tutti i saccheggiatori che fossero stati catturati.
Divorati dall’ossessione di farsi giustizia, o meglio, di vendicarsi al più presto, i partecipanti alla riunione decisero che il primo rastrellamento sarebbe stato effettuato la stessa sera, a partire dalle 21. Un gruppo composito, di cui facevano parte membri delle SS, della Gestapo, della Nsdap e di altre formazioni, comandato dalla polizia di difesa, passò al setaccio la città. La battuta di caccia agli «sciacalli» si sviluppò secondo un andamento a cerchi concentrici, ma questa prima retata non ebbe alcun esito. La prima impiccagione pubblica, nella piazza del mercato, dove era stata eretta una forca, avvenne, come si evince dal trafiletto apparso sulla «Hildesheimer Zeitung», in precedenza richiamato, nella notte tra il 25 e il 26 marzo.
A placare la sete di vendetta nazista non potevano tuttavia bastare quattro cadaveri lasciati a penzolare da una forca nella domenica delle palme del 1945. All’indomani, infatti, una nuova ondata di furore percorse le vie della città e si abbatté, infine, su un gruppo di «badogliani». Gli italiani, circa 500, erano, in parte, prigionieri del campo della città; e, in parte, provenivano da campi vicini. I primi, che erano rinchiusi nel lager 6001, insieme a polacchi, francesi, russi, erano obbligati a lavorare in una fabbrica d’armi, la Vereinigte Deutsche Metallverke, che, come già accennato, produceva pezzi di motori di aerei. Sottoposti a turni di lavoro massacranti, anche di 12 ore al giorno, morivano di sfinimento, denutrizione o tubercolosi. I secondi, provenivano principalmente dai lager di Barienrode, Peine, Groß Ilsede, Groß Bülten, e, come nel caso di Groß Ilsede, lavoravano come schiavi in miniere di ferro.
Impiegati per trasportare i cadaveri al cimitero, dopo averli estratti dalle macerie, rimuovere i cumuli dei detriti provocati dai bombardamenti e ripulire le strade, il 26 marzo, lunedì santo, erano stati portati a sgomberare i resti di un magazzino viveri della Wehrmacht in Wachsmutstraße. L’edificio era andato completamente distrutto, e i molti generi alimentari che vi erano conservati erano divenuti inservibili a causa dell’incendio. Per questa ragione, i soldati di guardia al deposito avevano autorizzato gli abitanti del quartiere e gli italiani a prendere delle scatolette di formaggio bruciato. Si trattava di formaggio oramai ridotto in carbone, ma sia i tedeschi, sia gli internati militari italiani, che erano a digiuno da giorni a causa dei bombardamenti, non esitarono a mangiarlo.
Neanche lontanamente sfiorati dal dubbio che stessero commettendo una qualche infrazione, e tanto meno un reato, poiché avevano ricevuto una regolare autorizzazione, molti italiani, alla fine della giornata di lavoro, avevano preso due o tre scatolette di formaggio bruciato, con l’intenzione di consumarle una volta ritornati ai campi. In questo modo, del tutto incolpevolmente, avevano fornito ai nazisti il pretesto, a lungo cercato, per accanirsi contro di loro, per vendicarsi dei «badogliani» traditori.
Intorno alle 22, mentre facevano ritorno ai loro alloggi, alcuni degli internati militari si imbatterono in pattuglie di polizia, che avevano intrapreso una grande operazione di rastrellamento. Gli uomini della Gestapo e delle SS fermavano gli italiani, li perquisivano e poi portavano in prigione tutti coloro che venivano trovati in possesso di scatolette di formaggio bruciato. In un clima sempre più concitato, e carico di terrore, la voce che erano stati allestiti dei posti di blocco corse veloce per la città. Nel volgere di poco tempo, raggiunse anche i prigionieri italiani, e questo consentì ad alcuni di essi, che non si fidavano dei tedeschi, di mettersi in salvo, tornando indietro, cambiando direzione o buttando via le scatolette. È in questo contesto drammatico che bisogna collocare la scelta del sergente maggiore Paolo Potena, che, sapendo di non aver fatto nulla di male, proseguì per la sua strada. Forte della sua buona coscienza, poiché non aveva violato nessuna regola, non soltanto non immaginava di poter essere vittima di una qualche rappresaglia, ma pensava, anzi, di poter spiegare tranquillamente ai tedeschi come erano andate le cose e di essere creduto.
Questa scelta, che lo avrebbe condotto alla morte, si spiega certo con la sicurezza della propria innocenza e con un tratto caratteriale, ossia con una naturale disposizione d’animo a conservare, anche nelle condizioni più estreme, una fiducia nel prossimo, ma rimanda anche ad un profondo senso del dovere. Potena faceva parte dei cosiddetti Lagerälteste, «anziani di campo», che erano i «fiduciari» scelti dai tedeschi fra gli ufficiali ed erano responsabili per la disciplina, l’ordine e la pulizia dei prigionieri di guerra nella baracca del loro campo. Sentendo la responsabilità che derivava da questa carica istituzionale, è assai probabile che il sergente maggiore Paolo Potena abbia sentito come un insopprimibile dovere di coscienza la difesa, a viso aperto, della onorabilità sua e dei suoi soldati, dall’accusa, infamante, di saccheggio. Ovvero di essersi appropriati di taluni generi alimentari mentre tutti, tedeschi e prigionieri, morivano, letteralmente, di fame.
Nel momento in cui iniziò il rastrellamento, il sergente maggiore Potena si trovava alla guida di un gruppo di una dozzina di uomini, ma, secondo talune testimonianze, sarebbero stati un centinaio. Bloccati dalla polizia, furono portati nella prigione vicino al cimitero e furono lasciati in cortile ad aspettare. In quel cortile, gli italiani gridarono con forza la loro innocenza, sottolineando, in particolare, la circostanza di essere stati autorizzati a prendere quelle scatolette di formaggio bruciato. Ma fu tutto inutile, poiché la Gestapo non fece neanche un interrogatorio. Gli italiani furono condotti nella piazza del mercato e capirono immediatamente che cosa li attendeva.
Nella piazza del mercato, dove si era radunata una piccola folla plaudente, incominciarono le impiccagioni, con modalità raccapriccianti. I prigionieri venivano fatti sdraiare faccia a terra, in attesa di andare al patibolo. Quando arrivava il loro turno, prima dovevano partecipare al recupero della salma di chi li aveva preceduti e poi erano costretti a salire su un bidone alto sessanta centimetri. A questo punto, un funzionario della Gestapo, o lo stesso Huck, metteva loro un cappio intorno al collo, il bidone veniva spostato e iniziava l’agonia del condannato. Per velocizzare le operazioni, un aiutante del boia tirava i prigionieri per le gambe. Gli ultimi cadaveri vennero lasciati penzolare dalla forca, con un cartello in cui era scritto: «chi saccheggia muore».
Molte altre esecuzioni ebbero luogo nella prigione vicino al cimitero; coinvolsero, oltre agli italiani, belgi, francesi e polacchi, e durarono fino al giorno prima dell’arrivo degli alleati. Allarmato perché il nemico era alle porte, il 5 o 6 aprile Huck si recò alla prigione, per partecipare di persona all’ultimo massacro. Fece capire, innanzitutto, che il problema della colpevolezza aveva perso oramai qualsivoglia rilevanza, poiché dispose che non si registrassero più i capi di imputazione dei detenuti ma soltanto i loro dati personali. Subito dopo, comunicò agli italiani che sarebbero stati impiccati, avvalendosi di un prigioniero che parlava tedesco. Eseguendo gli ordini, gli uomini della Gestapo tolsero agli italiani gli oggetti di valore e gli effetti personali, che vennero raccolti in una cesta comune. Dopodiché li condussero verso il lato sud della prigione.
La forca era costituita da una sbarra di ferro, incastonata nel frontone ovest dell’edificio e sorretta da un palo. Questa volta, non c’era un bidone per salire al patibolo, ma un ceppo quadrato, un tronco di legno alto quaranta centimetri. Le esecuzioni avvenivano in questo modo: il «candidato alla morte» doveva salire sul tronco; il boia gli metteva il cappio attorno al collo e poi dava un colpo al ceppo. Mentre stava morendo il primo, saliva sul tronco, nel frattempo rimesso in piedi, il secondo condannato a morte, che veniva a trovarsi vicinissimo al compagno di sventura che lo aveva preceduto. Questa procedura, davvero disumana, veniva ripetuta fino a veder pendere tutti e cinque i corpi dalla sbarra di ferro. Quelli che si rifiutavano di salire sul patibolo, venivano passati per le armi. Per non far sentire i colpi di pistola, veniva acceso un motore, che si trovava dietro l’angolo della prigione.
Le esecuzioni durarono dalle 19 alle 3 del mattino, ma fra le 22 e le 24, dopo aver ucciso i primi trenta, Huck e i suoi uomini interruppero il massacro per cenare. A svolgere il ruolo di carnefici erano due russi, che impiccavano gli italiani, li caricavano su un carretto e poi gettavano i loro corpi in una fossa comune. Stando agli studi più recenti, che riportano stime attendibili, duecentootto cadaveri furono sepolti nella fossa centrale del cimitero. Fu fatta eccezione per un tedesco, poiché, ribadendo fino all’ultimo la gerarchia razziale nazista, fu sepolto separatamente e con una lapide. La fossa comune fu scoperta dagli altri internati militari italiani, scampati al massacro, fra cui Igino Paglione, l’8 aprile, all’indomani dell’arrivo degli anglo-americani. Paglione ritrovò anche, nella prigione, taluni effetti personali appartenuti a Paolo Potena: i fregi del berretto, il grado che aveva sulla giubba e la posta che era arrivata dalla famiglia. Luigi Tedeschi trovò invece gli stivali, dai quali il sergente maggiore Potena non si separava mai.
La notizia della morte di Paolo Potena fu data da Igino Paglione, che ne scrisse a sua madre nel giugno del 1945. Quest’ultima, dopo aver letto la lettera la restituì al postino, supplicandolo di informare lui la moglie di Potena. Il postino non se la sentì, e incaricò una cugina di lei, Annina. Alla vista di Annina che, stravolta, piangeva insieme al postino, Nunziatina Ciccorelli capì che era la «sua» notizia. Annichilita dal dolore, si chiuse nella sua camera da letto e vi rimase per quattro mesi.
Nel frattempo, il responsabile del massacro, benché si fosse macchiato di un crimine così orrendo, non veniva punito severamente come avrebbe meritato. Huck si consegnò agli americani il 27 maggio del 1945. Internato fino al settembre del 1947, fu estradato in Francia con l’accusa di omicidio, deportazione e saccheggio. Il procedimento fu sospeso nel 1948. Il 10 novembre del 1949, la Corte d’Assise di Hannover gli inflisse una condanna a un anno e sei mesi di reclusione, per «crimini contro il genere umano» sottolineando, in particolare, il «modo insolente» con cui l’imputato aveva respinto le accuse. Tenendo conto di questa sentenza, il tribunale per la denazificazione di Bielefeld lo condannò ad una pena complessiva di due anni e sei mesi di reclusione, per aver fatto parte, «sciente», della Gestapo e delle SS.
In questi due processi, non si parlò della strage degli internati militari italiani, che fu affrontata in altra sede. Per quella vicenda, la Corte d’assise di Hildesheim condannò Huck, il 30 novembre del 1951, a cinque anni di reclusione e alla perdita per due anni dei diritti civili, ma nel 1953 la Corte d’appello della stessa città lo assolse. La Procura fece ricorso, ma il 9 febbraio del 1954 la quinta sezione della Corte federale respinse la richiesta di revisione perché «chiaramente infondata».
Loreto Di Nucci
Fonte: L. Di Nucci, Ultimi fuochi di ferocia nazista. Il massacro degli internati militari italiani di Hildesheim nel marzo 1945, in «Ricerche di Storia Politica», 1, Il Mulino, Bologna, aprile 2011.