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L'ultimo mulattiere



Se non eri un nobile, un barone o ricco di famiglia, le scelte erano tre: agricoltura, allevamento o industria boschiva. Nell'industria boschiva figuravano i mulattieri. Dall'elenco redatto da Vincenzo "la Scialpa" Di Lorenzo, ne risultano ben 37. Tra questi vi era Pasquale "Dolce" Santilli, padre del nostro protagonista, Carmine, classe 1952, che riferisce quanto segue:

– Ho iniziato presto a frequentare i boschi ma non come turista bensì come mulattiere, l'operaio addetto ai muli. Ricordo che i miei compagni di gioco erano i muli (ibrido tra una cavalla e un somaro oppure tra una somara e un cavallo maschio, nel cui caso il mulo è detto "bardotto"). I muli erano accomunati dal fatto che costavano un po' meno e nessuno li voleva perché avevano qualche piccolo difetto. I più soffrivano solo di solletico (canzìrre) ma erano forti, altri tiravano calci o non si facevano ferrare, venivano invece scartati quelli pericolosi che mordevano o rampavano con le zampe anteriori. Normalmente quando si comprava un mulo questo era già compreso di vàrda (basto).

In dialetto i muli venivano chiamati vettùre, anche se avevano un proprio nome. Quando richiesto, cioè tutti i giorni, erano pronti a trasportare la propria soma di 220/250 kg., un po' meno se il percorso era lungo. Cominciai saltuariamente, a 13 anni, dopo la chiusura delle scuole. A quell'epoca frequentavo la prima media e, per diventare un provetto mulattiere, la scelta era obbligata dal bisogno. A casa si portava sempre qualcosa a fine giornata grazie al duro lavoro, dato che la mia famiglia era composta da 6 figli, di cui ero il maggiore. Eravamo una famiglia equidistante dall'opulenza e dall'indigenza, come tante altre di Capracotta.

All'epoca i muli passavano la "visita militare" davanti ai ferrai a S. Giovanni. Se soddisfacevano dati requisiti, in caso di guerre essi venivano utilizzati dall'esercito.

Il posto più lontano in cui ho lavorato è stato Montaguto, in provincia di Avellino, poiché la maggior parte del tempo ho lavorato a Pescopennataro, al Quarte de re Pieŝche, tranne nel 1970 quando ho lavorato a Castel San Vincenzo e a Gamberale, dove ho dormito in un paglieàre (pagliaio). Ho smesso di fare il mulattiere a 20 anni quando sono partito militare.

In società con Raffaele "Paiele" Di Lullo, compare di battesimo di mio padre, avevamo 30 vetture. All'ora di pranzo i muli andavano accuditi dando loro biada (biada e paglia in inverno) dentro al bùcche (contenitore) per rinforzarli dopo lo sforzo compiuto e, di sera, andavano portati al pascolo dopo averli ferrati, se ce n'era stato bisogno. La sera, dopo aver scùppate (tolto) i basti, i muli venivano esaminati attentamente perché qualcuno poteva essersi fatto male o fiaccato, termine usato per indicare una ferita dovuta al basto. A questo si provvedeva spostandola in avanti o mettendo altra paglia nell'imbottitura del basto stesso.

La vàrda era fatta da una struttura con dalle guarnizioni. Facevano parte della prima quattro pezzi di faggio curvi, uniti a coppie a formare due archi. Questi due archi venivano poi collegati con assi di legno, anch'esse di faggio. Tra i due archi veniva inserita una pelle, generalmente di asino o cavallo, e, se capitava, anche di vitello. Sotto il basto, a contatto con la schiena del mulo, v'era una tela con una feritoia per inserire la paglia.

Tra le guarnizioni vi erano gli jeàcchere (iaccoli), per metà costituiti di catene e per l'altra metà di strisce di pelle di cuoio di bufalo. Sul davanti questi venivano incrociati, portando quello di destra a sinistra e viceversa. I mulattieri non potevano fare a meno della suŝta, una larga cinghia di tela che serviva a scaricare l'intera soma dopo aver sciolto gli iaccoli.

Finivano le guarnizioni la cénta (sottopancia), un pettorale utile a non far scivolare indietro il basto in salita, e la vràga (braga), uno straccale che, al contrario, in discesa non faceva scivolare in avanti il basto. Vi erano poi le pennette che, oltre a rappresentare l'estremità dei due archi del basto, avevano dato il nome ad una corda fatta di catene o pelle di bufalo che, insieme alle forcine, serviva per caricare la soma.

Completava il tutto una specie di coccarda messa in bella mostra sul basto chiamata fregapopolo.

Voglio raccontare, in conclusione, un episodio accadutomi lavorando a San Pietro Avellana. Alcuni pecorai di Capracotta avevano preso in affitto dei terreni appartenenti a San Pietro Avellana dove noi portavamo di sera i muli al pascolo. In cambio gli allevatori chiesero a mio padre di portar loro la legna. Mio padre acconsentì ma chiese di ricevere anche una salma di formaggio, visto che gli allevatori pascolavano le pecore sulle nostre terre a Capracotta. Alla fine noi non portammo la legna e loro non ci diedero il formaggio, per cui l'accordo saltò! – conclude Carmine Santilli.

A detta di Tommaso Sammarone, classe 1934, a Capracotta, sempre nel quartiere di S. Giovanni vi era un costruttore di basti un portone sì e uno no (a indicare la loro mole di lavoro). I bastai andavano a lavorare in vari paesi del Molise, dell'Abruzzo, in Puglia e in parte della Campania. Generalmente tornavano a casa dopo la festività di Ognissanti. Tommaso Sammarone aveva imparato il mestiere dal padre Incoronato e andò a Barisciano, in provincia de L'Aquila, per ben 17 anni.

Quando il proprietario calava nella tomba, le bestie portavano il lutto con un fiocco nero alla capezza per 18 mesi. Trascorso quel periodo gli addetti al cambio del fiocco erano proprio i bastai, che ne mettevano un altro di colore acceso, generalmente rosso, bianco, verde o blu.

Quella che era la ricchezza delle nostre montagne, i boschi, la terra e le pecore, è ormai soltanto un argomento di conversazione.


Lucio Carnevale

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