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Un lupo dinanzi al Municipio!


Capracotta lupi

Sulmona, 15 febbraio.

Nelle valli dell'Abruzzo e dell'Alto Molise, la settimana tra il cinque e il dodici febbraio è stata la più drammatica. I paesi isolati erano quasi cento. Sulle strade di montagna, le squadre di soccorso lavoravano anche di notte, alla luce dei fari o delle fiaccole, per aprire un varco nella neve che, in molti punti, era alta più di tre metri. Ma avanzavano lentamente: soffiava la tormenta; accadeva spesso che le raffiche di vento riempissero la trincea alle spalle degli uomini che l'avevano scavata; per tutti quei giorni, sull'Appennino abruzzese, la colonnina rossa dei termometri ad alcool ha registrato temperature di 35-40 gradi sotto lo zero. (Gli altri termometri non avevano resistito. Il mercurio era diventato solido, riducendo in frantumi la piccola ampolla ed il tubetto di vetro nei quali era chiuso. Lo si poteva intaccare con la lima; lo si scalfiva con la punta del coltello; lo si ammaccava con un sasso. Ma stringerlo tra le dita era impossibile: al tepore della pelle fondeva; tornava ad essere una materia irrequieta ed inafferrabile). Si temeva che i paesi isolati dalla neve non avessero una scorta sufficiente di viveri: che vi mancassero i medicinali. Si pensava che i lupi, spinti dalla fame, sarebbero scesi a valle.

All'Aquila, ad Avezzano, a Sulmona, a Campobasso, che erano i centri dai quali si controllava l'organizzazione dei soccorsi, arrivava di tanto in tanto qualcuno ch'era riuscito a rompere l'assedio ed aveva affrontato le fatiche ed i rischi di una drammatica marcia nella neve perché si sapesse che il fornaio del suo villaggio non aveva più farina; o che una donna era in pericolo per un parto difficile: soltanto un medico avrebbe potuto salvarla. E i lupi?

A quella domanda i montanari abruzzesi rispondevano con un gesto che era lecito tradurre in diversa maniera. Sembrava talvolta un gesto di orrore. E non si pensava, certo, a Cappuccetto Rosso; ma a certe stampe popolari, alla tragica scena della slitta che sfugge nel desolato squallore della steppa coperta di neve, mentre la famelica torma l'insegue, implacabilmente, sempre più da vicino. Il cocchiere tiene la frusta per la parte sottile e l'adopera come un randello sperando invano di tenere a bada la pattuglia che galoppa in testa alla muta; ma uno dei tre cavalli è già stato azzannato alla gola, e si impenna; un passeggero si sporge dalla spalliera della slitta, stringendo nel pugno una grossa pistola. Ha sparato; ed ora fa di nuovo il conto delle cartucce che gli restano. Un lupo è caduto riverso macchiando di rosso la neve. Ma un altro ha già spiccato un balzo e sta piombando su uno dei viaggiatori. Non si tratta, naturalmente, dell'uomo della pistola. La prima ad essere sbranata sarà la donna giovane e bella che trema di orrore, stringendosi nella pelliccia. Storie come questa sono avvenute davvero in Russia; quei tragici personaggi sono realmente esistiti e si può supporre che talvolta le loro sofferenze siano state ancor più lunghe e crudeli. Potrà mai accadere qualcosa di simile, nel nostro Paese? Sulle montagne d'Abruzzo quest'anno la neve è più alta, e più grande è la fame dei lupi: saranno spinti ad aggredire l'uomo? Ecco l'unica risposta che si possa dare: non avverrà mai. E ne diremo in seguito le ragioni più convincenti.

La testimonianza del pastore Vincenzo Sozio è la più recente; non la più importante. Quattro giorni fa, all'una di notte, un lupo è entrato in paese; è arrivato a metà della via Nicola Falcone, cioè a due passi dal Municipio: è riuscito ad aprirsi una breccia smuovendo la traversa più bassa di un cancelletto (il legno era fradicio) e ad entrare in un ovile. Ha sgozzato quindici pecore; ma si è accorto che non era possibile passare attraverso il varco reggendo con le zanne una delle vittime. Allora è entrato in una stalla vicina; ha ucciso una capra e l'ha trascinata via. L'altra sera, in un'osteria di Sulmona, il pastore Vincenzo Sozio ha raccontato la storia del lupo che andava a caccia in via Nicola Falcone. Ha detto:

– La stanza nella quale dormiamo io e mia moglie e quella nella quale dormono i miei figli sono proprio sopra l'ovile. Mia moglie, anzi, è sicura che quando è riuscita a prender sonno, la strage era già stata compiuta da un pezzo. Che ci volete fare? Non abbiamo sentito nulla.

Qualcuno ha commentato:

– Pazienza voi, che dormivate. Ma vostra moglie? Come ha potuto non sentire il tramestio, i belati, i lamenti delle pecore sgozzate?

Il pastore Vincenzo Sozio ha evitato di dire che certi ragionamenti sciocchi è meglio tenerli per sé: nel suo sguardo, però, si è letto chiaramente che lo pensava.

– Le pecore belano soltanto in due casi – ha spiegato –. Quando hanno bisogno di sale e quando stanno per partorire. Se il gregge è aggredito da un lupo, battono la zampa in terra, come fa il coniglio impaurito. Se possono, scappano; e si disperdono in ogni direzione. Ma quando comprendono che la fuga è impossibile, si stringono una contro l'altra; e si lasciano scannare in silenzio.

Uno degli ascoltatori, a quel punto, ritenne opportuno affermare:

– Non voglio dire che vi abbia fatto un regalo, il lupo di Capracotta. Ma, di fronte al rischio che avreste potuto correre, che sono quindici pecore? Pensate se, per una combinazione, quella notte, a quell'ora, vi foste trovato nell'ovile. Solo: senz'armi. Perché nessuno si mette a tracolla la doppietta, quando deve andare nella stalla per governare le bestie. Immaginate cosa vi sarebbe potuto capitare?

Il pastore Sozio fece un gesto che non presentava difficoltà di interpretazione. Significava: «Dove sono capitato!». Rispose:

– Se, per una combinazione, quella notte, a quell'ora, mi fossi trovato nell'ovile; e se non avessi avuto a portata di mano un fucile, o un tridente, o un bastone, o una pietra da lanciargli addosso, non so come avrei fatto. Forse avrei detto: «Maledetto porco!». O, forse, avrei tirato uno sternuto. Oppure avrei fatto un'altra cosa: la prima che mi fosse venuta in mente. Comunque, mettetevi bene in testa che, anche se avessi tirato uno sternuto, le mie pecore sarebbero ancora vive; ed io sarei qui: senza un graffio.

Il lupo che vive sulle nostre montagne non aggredisce l'uomo. Quel procaccia che, una settimana fa, arrivò trafelato a Pogliana gridando d'essere sfuggito per miracolo ad un branco di lupi che lo avevano inseguito per quasi sei ore ha l'aria di un buontempone, di quelli che non vanno tanto pel sottile. La tragica storia del soldato sbranato sulla strada di Alfedena che fu riportata, sei anni fa, da parecchi giorni era pura favola. E tante altre drammatiche avventure che si raccontano (la più classica è quella del contadino costretto a passar la notte appollaiato in cima ad un albero, assediato dai lupi) sono vecchie frottole che di tanto in tanto vengono rimesse in circolazione.

Una solta volta il lupo aggredì l'uomo. Accadde a Vastogirardi nell'agosto del 1949. Un lupo entrò in paese, di pieno giorno; raggiunse di corsa la piazza; azzannò alla gola quattro persone, che morirono tutte. Era idrofobo. Gli si diede per qualche tempo la caccia, inutilmente. Poi si finì per perdere le sue tracce e si pensò che fosse morto. Ma tre mesi dopo riapparve nelle campagne di Vastogirardi; ed un giorno aggredì un contadino che stava arando, a poche centinaia di metri dal paese. L'uomo, non avendo via di scampo, sfilò il timone dell'aratro ed affrontò risolutamente la lotta. Fu una scena drammatica che durò parecchi minuti. Ma alla fine, il lupo colpito alla nuca da una violenta randellata cadde a terra, morto. Il contadino si credette salvo. Era stato addentato ad una coscia e ad un bracco, ma le lacerazioni erano superficiali. Giudicò di potersele curare da solo. Lo portarono all'ospedale di Sulmona quando, trascorso il periodo di incubazione, apparvero le prime violente crisi dell'idrofobia. Ma ormai era troppo tardi perché i medici lo potessero salvare. Fece una morte atroce. Ululava; perché non scappasse dall'ospedale gli si dovette mettere la camicia di forza; tentava di mordere chiunque si avvicinasse al suo letto. Di tanto in tanto riacquistava l'uso della parola. In quei momenti urlava:

– Io, ho ucciso il lupo! Io, ho ucciso il lupo!


Tommaso Besozzi

 

Fonte: T. Besozzi, Un lupo, un lupo dinanzi al municipio!, in «Corriere d'Informazione», Roma, 15-16 febbraio 1956.

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