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Vacanze estive negli Abruzzi


Capracotta prima della guerra
La foto scattata da Eugen Nestle dal campanile della Chiesa Madre.

Da Castel di Sangro la spaziosa automobile si snoda in linee serpeggianti a est verso Capracotta, la mia destinazione, a 1.400 metri di altezza. Inaspettatamente, in pieno luglio, ci si immerge in panorami di monti innevati: Monte Amaro e Monte Greco, alti rispettivamente 2.800 e 2.280 metri. E poi sullo spoglio altipiano, che dovrebbe certamente essere Capracotta.

Al di là di tutta questa bellezza, ho dimenticato di chiedere dove soggiornerò per i prossimi otto giorni, proprio mentre la vettura attraversa la piazza. Un compagno di viaggio sembra che attendesse questo momento per consigliarmi la casa di donna Bianca, dove una torre semicircolare pone fine alla piazza mercato. Là una donnina avvizzita mi prese la valigia in modo raggiante, mentre io, attraversando la cucina, uscii su un piccolo balcone aperto. Che sorpresa! Schiantate a perpendicolo su alte scogliere, case stipate strettissime fra loro. Il ripido muro della casa si affaccia a 500 metri su un'ampia valle, da cui emergono brulli pendii e prati di pietre, sopra cui s'innalza la cima innevata di Monte Amaro.

– Vorrei pranzare su questo balcone – dissi alla padrona di casa che, quasi indignata, esclamò:

– Non si può proprio fare, nessuno l'ha mai fatto. C'è un tale vento che è impossibile mangiare.

Inutile: non c'era niente da fare! Il suo ospite dovette pranzare nell'elegante salotto al coperto, con le persiane chiuse, senza vento. Ma quella fu l'unica volta, poiché la signora, dopo un lungo battibecco, la sera mi ha servito la cena al tavolino sul balcone. Subito dopo, la padrona e altre tre donne, assiepate fuori della porta in cucina, han voluto vedere il forestiero che mangiava al vento.

– Madonna mia, non è possibile! – gridavano con stupore, ma poi si sono rassegnate.

In compenso, il piccolo abbaino nella stanzetta del forestiero venne sempre chiuso dalla governante:

– Il vento non fa bene – ha detto.

Io aprivo, lei chiudeva; e così ci alternammo per tutta la settimana. Eppure, in vita mia, non ho mai alloggiato bene come qui. L'estesa valle con prati delimitati da muretti a secco e arbusti, in lontananza le montagne innevate e sotto di me, verticalmente, in una fenditura nelle rocce, un tiglio in fiore - che porto con me da quell'estate, come un tesoro prezioso.

Ovviamente, dovetti subito salire sul campanile della chiesa, da cui alla luce si vede il paese sul piano assoluto, con le sue case grigie dai tetti in pietra su una roccia a ferro di cavallo. Nelle strette vie, dove le donne portano sul capo grandi caldaie in rame, ero conosciuto come il forestiero bianco, per via dell'abito bianco che probabilmente ha fatto buona impressione presso questa gente, ma forse anche per il fatto che li ho spesso aiutati a far legna. Per pochi spiccioli un uomo mi ha noleggiato un cavallo per l'intera giornata. Salire in montagna, che grande idea! La mattina seguente ero già in sella, anche se la padrona mi ha consigliato di non farlo perché i lupi potevano sbranarmi.

– I lupi? Ci sono di sicuro, – l'ho confortata – ma solo in inverno.

Anche il contadino che mi ha prestato il cavallo mi ha avvisato dei lupi e di un grande prato tra i boschi in cui portare il cavallo al galoppo. Anche sui Monti Sabini ho sentito parlare dei lupi. Oh, se solo potessi incontrarne uno! Detto questo, iniziai la cavalcata. Trottando, la mia volpe [il cavallo] mi portò fuori paese, sulle alture di Capracotta, sempre tra basse siepi. All'improvviso ho veduto ancora una volta il villaggio e, in un sol colpo, ho conosciuto le peculiarità della mia bestia, ovvero che si incammina, senza destar sospetto, verso la sua stalla. Questo perché guardavo sempre in lontananza. L'ha fatto un paio di volte, sempre quando i miei occhi erano imbevuti d'oro, e non vi prestavo attenzione. In quel momento salimmo con difficoltà, ancor più immersi tra sassi e rocce, nei meandri della montagna. Dopodiché né il cavallo né il cavaliere han saputo continuare; son dovuto scendere da cavallo e, passando sotto la sua pancia, l'ho tirato per le briglie dietro di me fin quando sono giunto in una conca selvaggia con rocce a strapiombo e gruppi di semplici faggi bassi che somigliavano a grossi cespugli. La macchia si faceva ancor più fitta e ho faticato a tener d'occhio il percorso. Improvvisamente il sentiero era sparito e, se non avessi abbassato la testa dietro il collo del cavallo, un ramo, cadendo, mi avrebbe di sicuro disarcionato. Dunque son rimasto a lungo accovacciato dietro il collo dell'animale poiché questi rami pendenti aumentavano. Dove mi portasse la mia volpe non sapevo. Ero a disagio finché finalmente i cespugli cominciarono a diradarsi e, come aveva detto il contadino, un prato favoloso si stese nel bel mezzo della foresta. Nel momento stesso in cui il cavallo ha raggiunto il confine della faggeta, è scattato verso il prato come una freccia, galoppando per tutto il pianoro. Da ultimo, sono riuscito a fermare il cavallo ansimante, l'ho legato a un albero e mi son sdraiato vicino a lui. Ho pensato che fosse strano che dopo quattro ore di ardite ascese il cavallo avesse ancora la volontà di galoppare. Probabilmente era proprio quello ad affascinare la volpe: avere la via libera.

Poco prima della stalla - non abbiamo visto nemmeno un lupo! - l'astuta volpe m'ha giocato un altro brutto tiro: salendo com'era sua abitudine le dure scale fuori casa si è intrufolata dalla porta sul retro, mentre io probabilmente ero intento a guardare qualche bella donzella. E anche lì mi son dovuto abbassare in fretta, come ormai avevo imparato a fare.

Gli amici di donna Bianca erano seduti in cucina e ho raccontato loro la mia giornata e altre avventure; le donne conoscevano invece storie lupesche. All'improvviso ho notato che una vecchia, ascoltando indifferente, grattava una forma di formaggio che, una volta aperta, brulicava di larve. Quando gliel'ho fatto notare, lei, tutta compiaciuta, ha elogiato il suo ottimo formaggio, che deve il suo sapore proprio alla presenza di questi animaletti. Io la pensavo diversamente.

Una volta - era il giorno prima della partenza -, ho scalato all'alba la vetta più alta della zona che poco prima avevo perlustrato in sella. Ho assistito ad uno spettacolo magnifico: lontano, a oriente, dove la costa digrada, il sole sorge creando una fascia luminosa sul Mare Adriatico. E, sul lato opposto, dove il monte si arresta perpendicolarmente, mi si è presentata, non senza stupore, una visione altrettanto potente: una foresta, una vera e propria abetaia tedesca, per quanto il mio sguardo poteva spaziare! Gli occhi vagavano in un emiciclo che dal picco montano si spingeva oltre le colline e le foreste di faggi, fino a quella verdissima radura circolare, incastonata nei boschi, dove avevo cavalcato giorni addietro. Mi arrampicai sulle rocce lì intorno e vagabondai per i boschi senza prestare attenzione al tempo. Solo nel pomeriggio vidi riemergere Capracotta. Anche se avevo detto alla padrona di casa dove sarei andato e che sarei tornato tardi, la fedele donna Bianca si fece irrequieta e mandò diverse persone a cercarmi. E quando finalmente tornai a casa, pianse come una madre, convinta che i lupi mi avessero sbranato.


Eugen Nestle

(trad. di Francesco Mendozzi)

 

Fonte: F. Mendozzi, Guida alla letteratura capracottese, vol. II, Youcanprint, Tricase 2017.

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