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Uno dei vardari capracottesi


Basto o varda
Il basto.

Ricordare personaggi che hanno fatto la storia di una piccola località come la nostra è un enorme piacere. E, per la verità, di uomini che nel tempo hanno dato lustro alla nostra Capracotta, facendola conoscere al mondo intero, ce ne sono tanti, anzi tantissimi. Poi, però, ce ne sono stati tanti altri, uomini e donne, che in silenzio hanno vissuto la loro vita dedicandosi alla famiglia, al loro lavoro, adoperandosi in mestieri oggi dimenticati o addirittura sconosciuti alle nuove generazioni.

Ecco, proprio a uno di questi vorrei rivolgere il mio ricordo, che in questo è certamente più profondo e sentito in quanto l'uomo al quale rimando i miei pensieri è mio padre Mario.

Nato nel 1909, dapprima vardàre come tanti, poi diventato manovale ed infine addetto di portineria. Un uomo come tanti, dicevo, che da giovane intraprese il mestiere di famiglia, quello appunto del vardàre, il mestiere di mio nonno di cui porto il nome. Un mestiere che ha accomunato diverse generazioni della mia famiglia, intrapreso dai miei antenati. Dei sei figli di mio nonno Antonio, quattro maschi e due femmine, mio padre Mario fu l'unico a diventare vardàre. Gli altri tre figli maschi si dedicarono a mestieri molto diversi: uno divenne falegname, mentre gli altri due intrapresero la professione del sarto. Questi ultimi emigrarono poi negli Stati Uniti d'America. Erano vardari il fratello di mio nonno ed i suoi figli, altri parenti acquisiti erano anch'essi vardari come Zazóne, cognato di mio padre.

Mio nonno, mia nonna e mio padre che era ancora in tenerissima età, si trasferirono a Faeto, in provincia di Foggia. Ed è lì che sono nati tutti i miei zii, compresa la secondogenita, Angiolina, che vi ebbe i natali nel 1912.

Il rientro a Capracotta ci fu alla fine del 1934, a Faeto mio padre aveva imparato da mio nonno quel mestiere, che continuò a fare anche a Capracotta. Le varde, in questo caso, erano destinate ad acquirenti locali - contadini e boscaioli - senza però disdegnare altri "mercati" quali quelli del vicino Chietino.

L'attività era svolta nella casa paterna, in via Nicola Mosca; successivamente, dopo il matrimonio, venne trasferita in un casotto a ridosso dell'abitazione dove sono nato, la casa di Buttiglióne, in via San Giovanni.

Anche mio padre, come tantissimi capracottesi, visse i tristi eventi del 1943. Catturato dai tedeschi, fu portato dapprima a Rivisondoli, poi a Pescocostanzo, quindi a Roccaraso. Ma il suo peregrinare lo portò a conoscere altre località di quell'area dove, sotto gli scambi dell'artiglieria tedesca ed inglese, fu addetto a scavare trincee, insieme ad altri compaesani, fatti anch'essi prigionieri dai nazisti.

Dopo lunghe peripezie giunse in Puglia, a Bari, dove, insieme ad altri concittadini lavorò alla costruzione della linea telefonica Bari-Taranto. Fece rientro a Capracotta nella primavera del 1944.

Nel settembre del 1945 sposò mia madre, Benedetta Assunta Vizzoca. La vita matrimoniale fu rattristata dalla perdita dei primi due figli, entrambi scomparsi nel 1949: il primo quando aveva poco più di due anni, il secondo di appena nove mesi.

Purtroppo con mio padre ho vissuto solo pochi anni della mia vita, perché ci ha lasciati quando avevo appena 18 anni, e del suo primo mestiere, il vardàre, non ho grossi ricordi.

Dal 1957, e per alcuni anni, lavorò a Roma come manovale nell'edilizia. Tanti sacrifici.

– Con tuo padre ho dormito in un appartamento in via Novara, – mi ha raccontato Mario Sozio – in una stanza siamo arrivati a dormire fino a 17 persone, tre nello stesso letto. Più ne eravamo e più si risparmiava, perché il costo della camera si divideva per più persone.

Ricordo i suoi rientri a Capracotta, specialmente in occasione delle festività. Tornava con la valigia carica di regali utili: quaderni, pastelli stipati in contenitori che si aprivano a libro. Poi, a seconda della festività, arrivava con i dolci tipici della ricorrenza. Ma ricordo bene anche i miei pianti ogni volta che doveva ripartire.

Nel 1962 fece definitivamente ritorno a Capracotta, dove riprese il vecchio mestiere del vardàre, lavorando prevalentemente per clienti di Vastogirardi e delle sue frazioni - Villa San Michele e Cerreto - ma aveva lavoro anche da Sant'Angelo del Pesco e finanche da Pizzoferrato.

Nel 1963, appena un anno dopo il rientro a Capracotta, partì per la Germania, seguendo così le orme di tantissimi altri capracottesi. Il ricordo della partenza della corriera da Capracotta diretta alla Stazione di San Pietro Avellana, con tanti uomini che partivano per la Germania, rimane indelebile nella mia memoria. Ho il vivo ricordo di quando, insieme ad altri ragazzini, prendemmo a calci la corriera che ci portava via i nostri papà, mentre sui volti delle nostre mamme scorrevano velate lacrime, che tentavano di nascondere per non addolorarci ancor di più. Poi il lungo viaggio verso la Germania, di cui conservo qualche vecchia foto che ritrae i volti afflitti di mio padre e dei suoi compagni di viaggio diretti verso quel paese allora molto lontano. Le lunghe attese, non meno di quindici giorni per ricevere una lettera da Wangen, una cittadina tedesca situata nella parte sudorientale del Land del Baden-Württemberg, posta sulle coste del lago di Costanza. Poi il rientro definitivo in Italia, dovuto anche al fatto che in Germania fu vittima di un infortunio sul lavoro.

Nel 1965 la mia famiglia decise di trasferirsi ad Isernia, per far studiare me e le mie sorelle. Qui, dopo un lungo e triste periodo di disoccupazione, iniziò prima a lavorare da manovale edile, poi l'affidamento di una portineria in uno dei primi palazzi che furono costruiti ad Isernia nella metà degli anni '60.

Non potrò mai dimenticare l'arrivo della mia famiglia ad Isernia: era il 2 ottobre 1965. Una casa in affitto - cucina e camera da letto per cinque persone - di proprietà del compianto Franco Ciampitti, in via Marcelli, nelle vicinanze della Chiesa di Santa Chiara. Da Capracotta portammo ciò che era indispensabile, ma non mancò di essere caricato sul camioncino un discreto quantitativo di legna. Quel giorno, era di sabato, avemmo alle costole i vigili urbani che ci imposero di liberare, con immediatezza, il luogo dove avevamo scaricato la legna perché lì doveva posizionarsi qualche bancarella per il tradizionale mercato del sabato che ancora oggi si tiene nel capoluogo di provincia.

Dopo due giorni iniziò l'anno scolastico. Accompagnato da mio padre, iniziai a frequentare la prima media presso la Giovanni XXIII.

Tuttavia vorrei tornare al mestiere originario di mio padre, molto fiorente fino alla fine della Seconda guerra mondiale, poi, però, lentamente scomparso a causa dello spopolamento del mondo agricolo. Osservo spesso una varda in miniatura, regalo di un mio parente, che conservo nel mio studio. La osservo in tutti i suoi particolari.

Re vardàre era quello che realizzava il basto per gli asini ed i muli. Per i cavalli, oltre alle varde, venivano usate anche le selle.

La varda veniva realizzata su misura; molto semplicemente era costruita così come si realizza un vestito per una persona. Veniva costruita per lo specifico animale, sia esso asino, mulo o cavallo, che veniva impiegato nel lavoro dei campi o per il trasporto della legna. Per realizzare una varda occorrevano le corve (pezzi di legno di faggio), pelli di animali, paglia, tessuto traspirante e abilità nell'adattarla all'animale che doveva indossarla.

I vardari capracottesi preferivano il faggio dei boschi di Matassenete; lo ritenevano, infatti, migliore rispetto a quello di Monte Capraro o di altre località perché era più duro. La parte migliore della pianta era quella più bassa del tronco. Le corve venivano ricavate dalla lavorazione del faggio nella falegnameria di Vincenzo Sammarone, dove veniva usata la sega a vento. Si ricavavano pezzi di legno curvi, chiamati appunto corve. E ne occorrevano quattro per la preparazione di una varda. Impossibile, inoltre, tirar fuori dalla segheria corve uguali. Allora seguiva una dura lavorazione a mano per ottenere coppie di corve che, a coppia, dovevano formare due semicerchi.

Le corve, a due a due, venivano unite tra di loro con un incastro a coda di rondine o meglio a meccia. Per forare le corve, sia per il loro incastro che per ottenere fori dove far passare le corde, si usava il verdilacchio ed un trapano a mano.

Le corve, chiaramente, si sceglievano a seconda della dimensione della varda da realizzare. I due semicerchi venivano, poi, messi in parallelo tra di loro ad una determinata distanza l'uno dall'altro, ed iniziava il vero montaggio della varda. La distanza tra le due corve era tale che, messe in parallelo tra loro, consentissero al cavaliere di sedersi.

Da precisare che degli scarti legnosi derivanti dalla lavorazione delle corve non si buttava nulla. Venivano infatti conservati per accendere o attizzare il fuoco trattandosi di materiale molto sottile, quindi di facile combustione.

Le corve, pertanto, erano l'anima della varda.

La parte sottostante le corve la si può descrivere in due sezioni ben precise: quella esterna attaccata alle corve era costituita da una pelle di animale (cavallo, asino, mulo o mucca), molto resistente perché doveva reggere agli urti di tutto ciò che veniva caricato sulla varda, dalla legna che veniva prelevata nei boschi, ai raccolti dei frutti della terra (sacchi di patate, grano) o per il trasporto degli attrezzi per la lavorazione della terra.

La parte interna, quella più bassa della varda, invece, si doveva adattare alla forma dell'animale da soma come un vestito, pertanto era utilizzata molta paglia che veniva inserita con forza tra la pelle appena sottostante le corve ed un tessuto di forte resistenza che poggiava sulla groppa dell’animale, un telo traspirante che doveva assorbire la sudorazione dell'animale. In pratica si realizzavano due borse laterali rigonfie di paglia, che dovevano poggiare sui fianchi dell'asino o del mulo. Una buona varda, se ben calibrata alla conformazione dell'animale, non provocava danni o escoriazioni. Essa era poi dotata di diverse corde, utilizzate per assicurare il carico da trasportare. Infine non si tralasciava neppure l'addobbo, che veniva chiamato re marrucchìne, perché spesso tendente ad un colore scuro.

L'animale veniva liberato dal peso della varda sia durante le ore notturne, sia nelle ore che restava nel bosco o nei campi. Alla fine della giornata, al rientro in paese, veniva ricollocata sul dorso dell'animale, caricata con il raccolto o con altro materiale, ma se restava spazio si poteva sedere qualcuno, dando naturalmente precedenza alle donne o ai bambini.

Questo, in conclusione, era il frutto del lavoro di chi, come mio padre, faceva re vardàre.

In ricordo di mio padre Mario, che ci lasciò in una fredda giornata di dicembre del 1972.


Antonio Vincenzo Monaco

 

Fonte: A. V. Monaco, Uno dei "vardari" carpacottesi, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. V, Proforma, Isernia 2014.

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