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20 e 20


Fascio di combattimento Capracotta

È possibile avere due volte vent'anni senza averne quaranta?

Sì, per me lo è stato, anche se i primi furono una gita noiosa e silenziosa nell'Italia borghese degli anni Dieci. Venni alla luce di primo pomeriggio, il 30 luglio del 1902, a Capracotta, negli Abruzzi, da una famiglia modesta e severa, e conobbi ben presto una personalissima inquietudine, accentuata da mia madre e dalla Grande Guerra del 1915, una catastrofe di così immani proporzioni dalla quale uscimmo vincitori perdenti e a cui non partecipai né con le idee né col sangue.

Presto qualcosa in me cambiò e il fremito degli anni mi portò ad ascoltare gli echi provenienti da Salcito, dove in agosto s'era appena costituito il primo fascio del Meridione, al quale - si diceva - lo stesso Mussolini aveva inviato un telegramma di gratificazioni.

Nel mio paese, noto ai più per essere una ridente stazione climatica in cui villeggiare, i primi vagiti di fascismo tardarono ad arrivare. Alcuni notabili capracottesi, socialisti d'adozione per vezzo e non per fede, criticarono fin da subito il movimento dei fasci e, spesso, scambiavano battute sulla natura proletaria di quei vagiti.

– In altura le idee terra terra faticano ad arrivare – ridacchiavano.

Per me che cominciavo ad interessarmi di politica Benito Mussolini, questo romagnolo dall'aria sicura e dalle idee incendiarie, stava diventando sempre più un punto di riferimento. La sua primitiva sintonia con Nenni sui temi sociali incendiava anche il mio di spirito: la situazione contadina ed operaia in Italia era stata trattata sempre con un certo fastidio, finanche con terrore, quando uomini di terra e di fabbrica avevano deciso di far valere i propri diritti di fronte all'autorità statale. Basti pensare che nelle grandi città la violenza per le strade era divenuta la norma, ma per me quello era il sintomo del marcio, il prologo ad una violenza ben maggiore.

E così le risposte di Mussolini mi sembravano le più concrete e innovative a un tempo. Il mio animo, da sempre proteso alla novità, venne travolto dalla foga giovanilistica ed impetuosa di questo reduce che si stava imponendo come un capo, un primo, un geniale e sopraffino uomo di altissima caratura internazionale.

Le mie scarne convinzioni in materia trovarono conferma dopo la marcia su Roma. E ancor di più dopo l'infuocato discorso di Mussolini al Parlamento, quando si dichiarò responsabile dell'omicidio di Giacomo Matteotti e si autodefinì, non senza sarcasmo, a capo d'una banda di briganti ed assassini. Una nuova epoca stava fiorendo ed io volevo esserne protagonista.

Dopo l'iniziale resistenza (acuita proprio dall'assassinio del deputato veneto) del comune di Capracotta ad iscriversi al Pnf, retto allora da un commissario, nel 1926 il mio paese normalizzò il proprio status inserendosi nell'orbita fascista, anche grazie al contributo del conterraneo Roberto Farinacci, decisamente più dinamico e intraprendente di David Lembo.

A quel punto la mia vita quotidiana si fece tumulto.

Le rare volte in cui ebbi la sfortuna di intrattenere una discussione con i signorotti del luogo la mia indole violenta e anticonformista veniva fuori in tutto la sua aggressività e, spesso, dalle scaramucce verbali si arrivava agli schiaffoni in pieno volto. Trovavo insopportabile che i benestanti, che basavano la propria ricchezza sui sacrifici dei pastori e dei contadini, si dichiarassero socialisti, mantenendo al contempo inalterata la loro protervia verso le classi più deboli e disagiate, spesso non degnando nemmeno d'un cenno di saluto, chessò, gli spazzini, i caprai, gli storpi.

I loro interessi erano rivolti solo all'amministrazione della cosa pubblica, alle licenze delle farmacie e delle relative condotte mediche, ai dividendi della Banca di Capracotta e del monte dei pegni, alla gestione dei soldi della Congrega di Carità e delle diverse società grondanti denaro, dalla Montesangrina a quella del Verrino, da quella automobilistica alla Cooperativa di Consumo.

Insomma: soldi, soldi, soldi.

Nei primi anni Trenta il mio disappunto divenne sconfortante quando vidi quegli stessi appoggiare il regime fascista, sicuri di poter ottenere vantaggi e benefici economici, dissentendo totalmente dagli auspici di Farinacci. Vederli vestire il nero fascista era un'offesa ai miei ideali, che avevo aderito al fascismo per indole, non per convenienza.

Più tardi capii che quello era un segnale di degrado che non avrebbe lasciato scampo all'intero progetto politico del Duce.

A Capracotta, nel 1937, il podestà Filippo Castiglione aveva deciso, in gravoso ritardo su moltissime podesterie più virtuose, di cominciare i lavori della fognatura, portati a compimento in tempi brevi e tradottisi in un indiscutibile miglioramento igienico dell'intero abitato.

Oggi, che di anni ne ho quasi cento, v'è ancora un fascio littorio sul tombino di piazza Stanislao Falconi. A ben vedere, l'unica traccia lasciata dal fascismo capracottese sta proprio sulla fogna, e mi riesce facile abbandonarmi all'ilarità...

Sono vecchio, vecchissimo, e tuttora i miei nipoti mi domandano un giudizio di valore sul mio lontano trascorso fascista. Cosa posso dir loro? Fu la mia giovinezza quella, e credo che nessuno può maledire la propria giovinezza, figuriamoci chi ha avuto l'ardire di avere vent'anni nel Ventennio.

Curzio Malaparte affermava che «è certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla». L'Italia la guerra la perse nel peggiore dei modi, col tradimento delle alleanze, con l'occupazione e con la guerra civile, il tutto dopo aver deportato e ucciso migliaia di connazionali per il solo fatto di appartenere a un'altra religione. Tutti hanno pagato un prezzo altissimo, in termini di vite e di beni. Capracotta, ad esempio, pagò il suo tributo non soltanto coi soldati mandati al fronte ma anche e soprattutto con la distruzione.

E allora il mio giudizio sul fascismo non può che essere negativo. Il fascismo tradì l'Italia e gli italiani, portandoli alla più completa rovina.


Lontano me ne andrò;

sul mare e sulla terra,

per dire no alla guerra

a quelli che vedrò.


E li convincerò

che c'è un nemico solo:

la fame che nel mondo

ha gente come noi.


Se c'è da versar sangue

versate solo il vostro;

signori, ecco il mio posto:

io non vi seguo più.


E se mi troverete,

con me non porto armi:

coraggio, su, gendarmi,

sparate su di me.

[B. Vian, "Il disertore", 1954]


Francesco Mendozzi

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