Proprio come Luigi Ianiro, Vincenzo Labbate, Mauro Giuliano o Nicola D'Andrea, anche Olindo Paglione appartiene alla schiera dei poeti capracottesi poco scolarizzati. Il suo stile compositivo, tuttavia, è lontano dal sonetto ianiriano e dalla rima dandreana, tanto che i suoi versi, estremamente semplici ed elementari, appaiono più vicini alla prosa che non alla poesia.
Olindo Paglione, infatti, non era un pastore né un falegname ma un artigiano della pietra, che lavorava con gusto nel tempo libero, anche se il mestiere ufficiale era quello del carpentiere, specializzato nella copertura dei tetti. Egli fu attivo perlopiù a Capracotta nonostante abbia eseguito lavori anche in Francia.
Olindo Paglione rappresentava però il tipo capracottese: dedito alla famiglia ed al lavoro, persona assolutamente godibile nelle occasioni conviviali e scanzonato quando si trattava di suonare l'inseparabile organetto.
Conservo alcuni suoi scritti, vergati a mano su fogli che egli stesso, un anno prima di morire, donò a mia suocera: oltre a pensieri sparsi, vi è un componimento datato 31 marzo 1992 ed altri due del novembre 1999. Su quei fogli di quadernino Olindo affermava che «questo mio scritto è una perdita di tempo, senza obbligo di leggerlo [che] ti resterà noioso, ci sono parole non complete, mal scritto, mi trema la mano. E anche la composizione, con la 3ª elementare una cosa migliore non può uscirci».
Nella "Prima antologia di poeti capracottesi" - che vedrà la luce nel mese di ottobre - sono stato costretto, mio malgrado, ad espungere Olindo Paglione perché, se con Ianiro e D'Andrea non vi è stato bisogno di alcun intervento di correzione, nel suo caso è stato invece necessario riparare alcuni errori grammaticali grossolani che, tuttavia, rispecchiano la parlata di Capracotta. È grossomodo quel che viene chiamata, in linguaggio tecnico, sonorizzazione dell'occlusiva postnasale, un fenomeno linguistico in cui le consonanti occlusive sorde vengono sonorizzate quando seguono le nasali.
Nel tentativo di correggersi, infatti, Olindo è caduto spesso nell'ipercorrettismo, per cui ho trovato, ad esempio, l'avverbio «quanto» in vece di quando, l'aggettivo «rovento», l'infinito gerundio «disperanto» o il plurale doppio «bracce». Ma gli errori, si sa, li fa solo chi "lavora" e, come ha scritto Olindo Paglione su uno dei suoi fogli, «vento che mena, tempo che dura»... e allora gustiamoci un paio delle sue poesie (un'altra, "Sul mare", l'avevo già pubblicata qui):
Un fiume dalle acque limpidissime
Un fiume dalle acque limpidissime
che scende dai monti
serpeggiando nella immensa pianura
interrompe il suo cammino.
Al di là del fiume una donna
se ne va sola soletta
cantando e cogliendo fiori profumati
d'amore e di grazia.
Quel tristo giorno
La mia ragazza trascinata dalla mente
e dalla visione, a fare un giro da sola
con la sua barca, in quel traditore mare.
Partiti con un sole rovente,
con la vela se l'è portata via il vento.
Vento vento traditore della mia bella.
Dopo tanto scompare dal mio sguardo.
Le lacrime bagnano il mio cuore e l'anima.
Mia cara, quanto saranno grandi quelle
tristezze che tu stai passando...
Nelle mie mani non c'è più il tuo sonno
ma ci sono le tue lacrime.
Nelle mie labbra non ci sono più
quei tuoi profondi baci, mentre
ho una bocca deformata e un cuore sradicato.
Nelle mie braccia non c'è più il tuo corpo
ma c'è un vuoto d'aria.
Mia cara, perché mi hai lasciato?
Perché non mi hai portato con te?
Così scendevamo insieme nel profondo mare.
Francesco Mendozzi