Padre Giuliano nacque a Capracotta nel maggio 1824, da padre falegname, e si chiamava Pasquale D'Andrea. Sin da ragazzo preferì lo studio alla pialla, e da un canonico contemporaneo cominciò ad apprendere le prime nozioni di latino e filosofia. Quando Pasquale era ancora adolescente, arrivò a Capracotta un frate predicatore, Padre Gabriele da Morrone, «pittoresco tipo di monaco, con la barba fluente, la persona gagliarda e la parola facile, sonora, attraente».
Pasquale vide nel predicatore il tipo che preferiva e subito decise di diventare frate, contro il volere del padre che pensò di chiuderlo in casa. Il ragazzo fuggì, raggiungendo a piedi Sulmona. Si diresse al Convento dei Cappuccini di quella città, dove «per prima accoglienza ebbe una pioggia di improperii dal portinaio che gli insegnò non essere quello un modo garbato di tirare il campanello».
Il ragazzo piacque però ai monaci del convento, i quali - convinti che la sua vocazione fosse vera - si preoccuparono di chiedere al padre il consenso per iniziarlo alla vita monastica; il consenso, grazie ai buoni uffici del Rev. Policarpo Conti, finalmente fu dato. Ciò avvenne verso il 1838-39.
Padre Giuliano non continuò ad essere molto studioso: preferiva la vita dinamica a quella contemplativa. Poiché era un ottimo e simpatico conversatore, ebbe dal guardiano del Convento l'incarico di curare le pubbliche relazioni che gli procurarono molte amicizie fra le più note famiglia abruzzesi. «Ma nella tonaca – osservava il Conti – si chiudeva il soldato più che il monaco e nel cenobita si celava il guerriero: forse era nato per la tempesta e l'uragano, non per la bonaccia. Con un organismo di ferro e una gagliardia muscolare d'Ercole, aveva sortito da natura intrepidezza d'animo e una certa inflessibilità di tempra che era il meglio del suo naturale». Tanto uomo, naturalmente, non poteva accontentarsi dei soli piaceri dello spirito.
I moti rivoluzionari del 1848 non lo lasciarono indifferente: lo resero tanto turbolento che i suoi superiori furono costretti a mandarlo, per punizione, a Pizzo Calabro, dove era strettamente sorvegliato. Qualche anno dopo, cessati i tumulti, gli fu concesso il trasferimento per Lanciano, poi passò nei conventi di Tocco Casauria, Avezzano e L'Aquila. Questi diversivi però non riuscirono a domarlo: si gettò a capofitto nei moti del 1859-60, e si entusiasmò per Garibaldi. La polizia borbonica lo cercava continuamente, ma egli non si lasciò prendere. Fu costretto a comprare un cavallo per muoversi più rapidamente, e una mattina, mentre gli sbirri entravano «da una porta lui partiva al galoppo da un'altra». La fuga durò quarantacinque giorni e fu molto movimentata. Ma leggiamo il dr. Conti:
Andava errabondo solo la notte fra gli aspri monti che circondano il Fucino. Non gli mancava l'ospitalità, ma dovunque era scovato e costretto a fuggire. A Lecce dei Marsi volle dir messa, ma una spia lo riconobbe e le guardie furono messe alla porta. Avvertito da un amico, scappò da una porticina segreta e sotto la pioggia si ritrovò nell'aperta campagna; si avviò al lago sperando di traversarlo in barca, ma la barca non venne e, accoccolato sotto un muricciolo, tutta la notte stette ad ammollarsi sotto la pioggia torrenziale. Al mattino, una barchetta apparve e, dopo mille preghiere, il barcaiolo lo condusse a Luco, ove ebbe ospitalità da gentile famiglia. Ma si sospettò qualcosa, e gli ospiti dovettero dirgli che la casa era vigilata: per fuggire egli si fece rinchiudere in un fascio di sarmenti. Caricato su un carretto e gettato con le fascine su una barca, fu condotto ad altra spiaggia. Ivi cominciò a salire sui monti infestati dai briganti. Dormiva nelle casette dei contadini e si cibava col loro pane. Un giorno si imbatté in un uomo armato di schioppo e pugnale, dalla faccia niente rassicurante. Era un brigante che si insospettì del monaco fuggiasco, il quale si schermiva dello scopo delle gite pei monti col pretesto della questua pel convento. L'uomo, col fucile spianato, gli intimò di consegnargli quanto aveva indosso. Il Padre Giuliano aveva seco una bella somma di denaro e pregò parecchio per essere lasciato libero; ma il brigante gli puntò il fucile al petto. Allora egli, con un moto rapidissimo e ardito, afferrò con la sinistra la canna dello schioppo e con la destra si gettò alla gola del brigante. La Provvidenza, diceva Padre Giuliano, mi aiutò, la presa mi venne buona (e mostrava la mano contratta e rigida). Lo atterrò in un istante e gli fu sopra col ginocchio: il brigante si dibatté invano con gli occhi fuori dalle orbite sotto le dita di ferro del frate, che non lo lasciò fino a quando non sentì irrigidirne il corpo. Pochi giorni appresso, raggiunse le colonne dei volontari garibaldini e le seguì, combattendo al Ponte della Valle, al Volturno e sotto Capua.
Terminate le battaglie per l'Indipendenza, Padre Giuliano si trovò prima a Torino e poi a Firenze. Nel 1866 tornò a Capracotta. Comprò una casetta in cui visse solo. Insegnava privatamente ai ragazzi delle elementari (anche mio padre raccontava di avere appreso la matematica da lui); rilegava libri e coltivava un orto. Portava sempre la tonaca, e quando i superiori gli ordinarono di "secolarizzarsi", se non tornava in convento a Roma, indossò l'abito del prete.
Ma divenne una «figura buffa, e poco appresso dové farsi ricrescere la barba e ripigliare le rozze lane. Due giorni innanzi la morte – riferiva il dr. Conti – reso impotente dall'apoplessia, smaniava dell'inerzia forzata e a me e all'arciprete raccontava che, per la scommessa di cinque messe con altri frati, andò un giorno da Tocco Casauria a Scurcola nella Marsica (un tragitto di 80 km.) con una pesanta bisaccia indosso. Altre volte raccontava che volle traversare il Guado di Forca (presso Avezzano) in un giorno di tempesta, di inverno, e che, ivi giunto, lasciò morti affogati nella neve un compagno e un cavallo, proseguendo carponi il viaggio di notte».
Padre Giuliano morì a Capracotta l'11 luglio 1894, lasciando i suoi beni all'Asilo Infantile.
Giambattista Carfagna
Fonte: G. Carfagna, Note di vita capracottese, Capracotta 1977.