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Viteliù - E venne il tempo


Viteliù

Roma, idi di Majus dell'anno 68V


Il vecchio si svegliò di soprassalto. Sudato e in preda all'agitazione, come ogni volta che quel sogno tornava. Accadeva sempre più spesso, ultimamente. Quella scena lo perseguitava.

Signore...

Sentì la voce del servo vicina e preoccupata. Durante il sonno aveva gridato e Kaeso era entrato nella stanza per vedere cosa fosse accaduto.

Sto bene, era solo quel sogno. Il solito incubo; ma è sempre più vivo e... sempre più doloroso.

Succede quasi ogni notte ormai, signore disse il servo. Non riposate più.

Si direbbe che...

Cosa?

L'anziano cieco tese la mano per farsi aiutare e sedette sul letto. Il servo gli infilò i calzari.

...si direbbe che il passato torni con insistenza per annunciarmi qualcosa. Forse vuole invitarmi a rompere gli indugi.

Orinò nel pitale di stagno che Kaeso gli aveva avvicinato, poi chiese acqua per lavarsi. Quella mattina - l'alba era appena spuntata - si lavò il viso con particolare cura.

Salvare la memoria e l'onoremormorò, come se dovesse ricordare a se stesso un dovere. Salvare la vita di chi è rimasto , aggiunse. Si asciugò il volto con un panno di lino grezzo e subito dopo ordinò con risolutezza: Prepara un bagno caldo e si tolse i calzari da solo.

Padrone , disse il servo, oggi... con tutto il rispetto... non è nessuna delle ricorrenze che voi solitamente celebrate...

Non si spiegava, Kaeso, quella richiesta inconsueta.

Fai come ti dico fu l'unica risposta, dal tono piuttosto deciso.

Il vecchio attese che l'acqua si scaldasse nel caldaio di rame appeso sul focolare, poi si fece aiutare per spogliarsi ed entrare nella tinozza di legno. Kaeso non l'aveva mai visto completamente nudo, in tutti quegli anni. Un fisico solido, nonostante l'età, pensò il servo, e ancora capace di una qualche agilità. Notò la spalla e il braccio destro più muscolosi rispetto all'altra parte del corpo, come accadeva per gli uomini atti alle armi, segni lievi di antiche ferite e uno strano tatuaggio al centro del petto. Un toro che incornava un cane o qualcosa del genere. Ciò che lo colpì di più era un segno sotto il ginocchio sinistro. Il sangue gli si raggelò nelle vene: era l'inconfondibile callo lasciato dallo schiniere indossato dai più feroci tra i guerrieri italici. Il servo deglutì, ma non ebbe il coraggio di proferir parola.

Il bagno durò poco. Quella stanza povera non aveva visto che poche volte una tale scena, almeno dal tempo in cui i due vi abitavano.

Non pensare che io sia impazzito disse l'anziano rialzandosi per asciugarsi, o incanutito al punto da non ricordare il calendario del mio popolo e le ricorrenze. Ho ancora bene a mente tutte le feste sacre dell'anno, i templi e tutti gli dèi della Tavola.

S'interruppe. Pensò al sogno e alle ultime, terribili, immagini che i suoi occhi avevano visto.

La Tavola... si riprese e alzò la testa come per guardare lontano ...è tempo che riveda la luce e che torni al suo posto. Il tesoro... Viene un tempo per tutte le cose disse rivolto a Kaeso e anche questa volta il giorno è arrivato.

Fece una pausa, restò assorto nei suoi pensieri.

Ieri mi hai detto dei falchi riprese, volteggiavano con in-sistenza su questa casa. Non è vero?

Sì, è così, erano tanti, tutti insieme. I piccioni di Roma fuggivano terrorizzati.

Un segno... un altro. E l'incubo che si fa insistente...

Ancora una pausa. Poi alzò il capo come per guardare lontano.

Sì, accadrà oggi" disse con risolutezza e trasse un profondo respiro.

Signore... provò a prendere la parola il servo.

E non chiedermi più nulla! L'anziano lo interruppe bruscamente. Piuttosto prendi le forbici e il rasoio.

Questo non era davvero mai accaduto. Da quando lo conosceva - ed erano passati ormai quasi otto anni - il vecchio non si era mai tagliato i capelli né la barba che insieme formavano un'unica foresta bianca e selvaggia, a tratti ingiallita, intorno al viso scavato dalle rughe. Kaeso aveva imparato ad avere rispetto di quel vecchio che Lucio Cornelio Silla, il Dictator in persona, gli aveva ordinato di servire.

Dovrà vivere il più a lungo possibile sino a che io sarò in vita gli aveva detto, ma non dovrà lasciare Roma, pena la tua morte . E Silla non era uomo da non mantenere certe promesse. Da quel momento lo schiavo di origine umbra si era preso cura di quel vecchio e un funzionario aveva sempre badato a versare quanto bastava per sostenere entrambi. Non era molto, ma sempre meglio della vita che Kaeso avrebbe condotto restando nel fondaco della fullonica tra le vasche dei colori per i tessuti dove aveva lavorato fino a quell'incontro; lì gli acidi lo avrebbero ucciso o mutilato molto presto. Perciò lo schiavo aveva imparato a vedere nell'anziano la sua rendita vitalizia e gli era rimasto accanto nonostante la morte di Silla, perché, per ordine espresso del senatore Gaio Licinio Verre, il denaro continuava a essere versato regolarmente.

Molti a Roma credevano che il suo assistito fosse un notabile di una qualche tribù non latina, forse un sacerdote, che aveva reso dei servigi a Silla tanto da guadagnarsi il vitalizio dello stato romano, ma nessuno sapeva davvero la verità. Pochi avevano udito la sua voce. Kaeso, pur non conoscendo chi fosse veramente quell'uomo, aveva capito che nel passato doveva essere stato importante fra la sua gente. Italici, certamente, e la lingua osca che entrambi parlavano lo testimoniava, ma quale delle genti delle montagne? Quel vecchio aveva i tratti e il parlar colto e autorevole di un capo, o di un sacerdote, senza particolari inflessioni.

Ora, la certezza di trovarsi di fronte un guerriero, sannita forse, aveva provocato nel servo fremiti di paura. Temette per più di un attimo che fosse un Pentro, sopravvissuto chissà come alle stragi ordinate da Silla. I Pentri, la razza più temuta e odiata dai Romani da due secoli e oltre. Il popolo che Silla aveva condannato alla damnatio memoriæ. Era forse, il vecchio, un capo sopravvissuto alla battaglia di Porta Collina? Un traditore passato in segreto dalla parte dei Romani? Chi fosse dunque l'anziano e perché Silla lo avesse lasciato in vita, in pratica prigioniero a Roma, Kaeso lo ignorava. Ma, fin dall'inizio di quella storia, aveva avuto l'impressione netta che per lui fosse meglio così. Una sola volta lo schiavo aveva provato a chiedere spiegazioni, ricevendo una risposta tale da non lasciar dubbi. Non avrebbe saputo la verità e soprattutto non doveva chiederla.

Quella mattina stavano succedendo cose nuove. Qualcosa si preparava. La stranezza del bagno, il taglio dei capelli e della barba. Un fremito di paura attraversò di nuovo la schiena del servo cui dolevano le viscere per la tensione che vi si andava accumulando. Di natura non era un coraggioso e una vita quieta e riparata dai guai era stata sempre il massimo delle sue aspirazioni.

Terminò l'operazione seguendo le istruzioni dell'anziano che chiamava "signore" o "padrone" ignorandone del tutto il nome. Il casco dei capelli bianchi ora era ordinato e la barba bianca, lunga pochi centimetri, incorniciava il viso che sembrava ringiovanito di almeno dieci anni. Il vecchio chiese al servo di trarre da una cassa, fino a quel momento mai aperta, una tunica e il bastone che vi erano contenuti. Terminata la vestizione l'uomo si alzò: davanti a Kaeso apparve una figura diversa, solenne e dritta, dentro quella tunica chiara di lana grezza bordata di rosso, il vestito di un capo. Il volto autorevole, nella mano destra l'alto bastone di legno chiaro che alla sommità portava una piccola scultura di bronzo raffigurante la testa di un toro. Lo schiavo stentò a riconoscere nella persona che stava osservando il vecchio silenzioso e burbero che aveva servito per quegli otto lunghi anni.

È ora di andare disse il cieco e porse il braccio per farsi accompagnare all'uscita. Kaeso fece appena in tempo a prendere la bisaccia e il mantello leggero. Uscirono. La temperatura era ancora fresca a Roma in quel mattino di mezza primavera.

Una rossa aurora annunciava il sole che non era ancora spuntato all'orizzonte. Nelle strade la vita aveva cominciato a correre in quello che era uno dei quartieri commerciali della città. Nel giorno che divideva in due il mese di Majus, cadeva la festività dedicata a Mercurio, il dio alato figlio di Giove e di Maja. Arbitro di tutti gli dèi, era venerato dai commercianti come loro protettore. Proprio questi ultimi, quella mattina, erano stati i primi a scendere in strada. Il vecchio e il suo servo ne incontrarono diversi con rami di alloro nelle mani mentre si dirigevano verso la fonte sacra di Porta Capena. Qui avrebbero bagnato le fronde e, con queste, il proprio capo. Tornati a casa, avrebbero provveduto ad aspergere con la stessa acqua le loro mercanzie; era infatti antica credenza che il rito, accompagnato da preghiere e invocazioni a Mercurio, servisse a cancellare le colpe del passato legate alla disonestà e, nel futuro, a favorire gli affari.

Svoltarono nella via dei pellai, una strada larga, in leggera discesa, con marciapiedi su entrambi i lati e passaggi pedonali fatti di blocchi di pietra allineati, più alti di quasi due piedi rispetto al fondo, pavimentato con grandi lastre calcaree. I primi carri già la percorrevano. Non erano poche le botteghe già aperte; sui banconi all'esterno gli artigiani e i loro schiavi sistemavano le merci in bella evidenza; qualcuno era già al lavoro, chino a tagliare pelli o a cucire suole. Profumo di cuoio, colle e pelli appena conciate accompagnarono la coppia in tutto il percorso fino a metà della via. Di qui i due svoltarono a destra, imboccando una strada più stretta e ancor più brulicante di vita.

Era la strada dei lanaioli impegnati dal periodo di lavoro più intenso di tutto l'anno. La prima lana, tosata nei giorni precedenti, era stesa ad asciugare dopo il lavaggio. Alcuni pastori, riconoscibili dalle vesti di pelli o di lana grezza e dagli strani calzari a punta tenuti fermi da stringhe di cuoio al polpaccio, accompagnavano i proprietari delle greggi impegnati a contrattare il prezzo della preziosa materia prima con i bottegai e gli artigiani. Le grida e il rumore dei carri carichi di lana che entravano in città si confondevano con i canti delle donne già intente a cardare decine di velli. Migliaia di pecore senza più la pesante protezione invernale sostavano, strette l'una all'altra per ripararsi dal freddo, poco fuori delle mura della città, tappa obbligata del loro imminente viaggio verso i monti della Sabina e dei Marsi.

L'anziano conosceva bene l'odore dolciastro della lana grezza e a un certo punto si fermò. Alzò un poco il capo e dilatò le narici inspirando profondamente. Catturò con un leggero senso di piacere quel profumo a lui tanto familiare. Era il quartiere che negli anni del soggiorno forzato a Roma egli era solito frequentare soprattutto nei mesi di Majus e Junius. L'unica strada in cui ritrovava, nella città nemica e straniera, qualcosa della sua terra. Si fermava volentieri ad ascoltare i diversi dialetti della sua lingua madre divertendosi a indovinare le provenienze di pastori e proprietari. Con qualcuno intrattenendosi più a lungo. Erano le uniche occasioni nelle quali Kaeso vedeva barlumi di serenità nel vecchio che accudiva.

Quella mattina l'anziano restò fermo solo per pochi attimi, assorto. Il grido di un nibbio che volava basso sui tetti di Roma alla ricerca della prima preda della giornata lo distolse. Volse la testa in alto come per vederne il volo, dunque riprese la marcia, nuovamente concentrato sulla missione che da troppi anni attendeva di compiere.


Nicola Mastronardi


 

Fonte: N. Mastronardi, Viteliù. Il nome della libertà, Itaca, Castel Bolognese 2012.

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