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Viteliù - Anni difficili

Aggiornamento: 19 dic 2024


Viteliù

Roma la civilizzatrice, padrona d'Italia, d'Etruria e della Gallia peninsulare; della Spagna, sia pur rivoltosa, e delle terre più ricche del vicino Oriente. La Magna Civitas che aveva sconfitto Annibale, raso al suolo Cartagine e finalmente cancellato i feroces Samnites dalla faccia della terra. Già, il popolo sannita, il "nemico" per antonomasia per Silla e per i Romani di molte e molte generazioni.

Vivissimi, nei ricordi di tutti, erano ancora i fatti accaduti dieci anni prima, quando Lucio Cornelio Silla aveva salvato la città dai Sanniti e dai loro alleati, sotto Porta Collina. Tutti ricordavano a Roma quella tremenda notte, fra il primo e il secondo giorno del mese di November del 671, nella quale l'esercito degli Italici, comandati da Ponzio Telesino alleato della fazione di Caio Mario, era stato a un passo dal conquistare la città. La velocità delle truppe guidate da Silla e soprattutto l'arrivo dei rinforzi di Crasso all'ultimo momento, avevano significato la salvezza contro la minaccia dei terribili, indomiti, nemici della Repubblica. Il fantasma delle Forche Caudine, ma anche il ricordo del sacco dei Galli, erano aleggiati per giorni tra i Romani di tutti i ceti.

Quella stessa notte, dopo l'insperata vittoria, Silla in persona aveva comandato l'esecuzione di tutti i prigionieri sanniti della touto dei Pentri i quali, a differenza dei guerrieri delle altre etnie, lasciati liberi, furono trucidati a migliaia nel Campo Marzio, tanto che il Tevere fu rosso, per giorni, del loro sangue. Sembrava passato davvero poco tempo da quando sui rostri del foro erano state appese le teste degli oppositori di Silla. I Romani ricordavano ancora i macabri trofei di Mario il Giovane, di Carbone e dei capi italici come Ponzio Telesino e l'anziano Gavio Papio Mutilo. In quel momento Silla era apparso alla maggioranza delle famiglie nobili, favorevoli alla restaurazione degli antichi privilegi repubblicani, come il salvatore della patria. Aveva chiesto e ottenuto i pieni poteri e, cosa rara nella storia di Roma, era stato nominato Dictator. Fin dai primi giorni del suo potere aveva fatto intendere che solo operazioni radicali avrebbero potuto estirpare la mala pianta dei nemici di Roma: occorreva eliminare rutti gli avversari interni ed esterni, romani e italici. Questo doveva fare e questo aveva fatto, fino in fondo. Una delle sue prime preoccupazioni era stata quella di debellare ciò che restava delle forze italiche ostili: Pentri, Marsi e i pochi Carricini, soprattutto. Non solo. Con l'intento di evitare per sempre a Roma il pericolo della rinascita di una ribellione sannita, Silla aveva inviato due legioni a cancellare il Sannio dei Pentri, uccidere e deportare le sue genti. Di quella nazione e dei suoi luoghi d'origine nulla sarebbe dovuto sopravvivere a lui. Così come aveva comandato che accadesse di ognuno dei suoi peggiori nemici.

La data del 1° di November, ricorrenza della vittoria di Porta Collina, era stata proclamata festa dello stato. Nel primo anniversario della battaglia, Lucio Cornelio aveva comandato feste memorabili: si erano tenuti sette giorni di banchetti offerti all'intero popolo di Roma, gare di atleti, giochi gladiatori, esibizioni di caccia a bestie feroci e corse di carri.

Sul piano interno l'obiettivo principale era stato quello di cancellare ogni traccia della fazione di Caio Mario, Cinna e Carbone attraverso una campagna di terrore e il metodo, spietato, delle liste di proscrizione. All'interno della città si erano diffusi il terrore e l'angoscia. Chiunque, secondo l'inappellabile giudizio del dittatore, poteva essere iscritto nelle liste dei nemici della Repubblica e, senza processo, perseguitato, ucciso con premi in denaro per i delatori e gli esecutori. Intere famiglie erano state distrutte, moltissimi quelli che avevano tentato la fuga spesso senza successo; immensi patrimoni erano stati confiscati, per finire nelle stesse mani di chi aveva denunciato o ucciso i proprietari. Contemporaneamente Silla si era dedicato con grande decisione al riordino dello stato e delle province, dell'ordine giudiziario e persino della religione e dei culti.

Riforma dell'ordine sociale e rinascita dell'economia furono suoi precisi obiettivi per una Roma ridotta allo stremo da anni di guerre contro gli Italici e contro Mitridate, fino alla guerra civile fra Silla stesso e Mario. Le casse vuote dello stato erano state gradatamente riempite e la città sembrava ora rinascere a nuova vita, fino a far apparire all'orizzonte l'avvento di una nuova era.

Lucio Cornelio, il Dictator restauratore dell'antica repubblica, colui che aveva inteso riportare Roma alle tradizioni dei padri, ma anche ai privilegi della nobiltà patrizia, aveva consolidato il dominio della città fondata da Romolo sull'intera penisola italica e su gran parte del mare conosciuto. Negli anni del suo potere egli aveva suscitato sentimenti contrastanti, mai neutri: odio e amore, riconoscenza e sete di vendetta. Lo si descriveva tiranno, ma molti avevano goduto dei risultati della sua tirannia, si favoleggiava sulla sua vita dissoluta da depravato amante delle orge, oltre che della violenza più spietata contro i nemici. A molti atti di tirannia e di depravazione, soprattutto nell'ultimo periodo della sua vita, egli si era abbandonato. Il suo potere assoluto non era durato più di tre anni. Presto Lucio Cornelio, già anziano al momento del trionfo di Porta Collina, si era ammalato. Sentendo la fine vicina aveva deciso di ritirarsi vivendo gli ultimi mesi della sua esistenza tra il lusso sfrenato e stramberie di ogni genere. Aveva comandato per sé, e aveva ottenuto, funerali in pompa regale, che non si ricordavano a memoria d'uomo, e tali da far impallidire il suo più grande corteo trionfale. Il cadavere su una lettiga d'oro, centinaia i letti funebri dei Corneli estinti, decine di carri che raccontavano le scene della sua vita e altri carichi d'oro e di spezie, un interminabile numero di soldati e cavalieri in assetto di guerra.

Erano dunque passati sei anni dalla morte del Dictator, ma la sua ombra si allungava ancora sullo stato e sui cittadini a ricordare il periodo delle proscrizioni e il terrore. La città attraversata dal vecchio cieco e dal suo servo non nascondeva una rinascente opulenza anche se nuovi e vecchi problemi non mancavano.

Quell'anno, il 681° dalla fondazione, la Repubblica restaurata da Silla si trovava a fronteggiare diversi importanti pericoli: in Spagna la lunga guerra contro le forze residue della fazione di Caio Mario, nemico giurato del dittatore e della Repubblica, a Oriente la perenne minaccia di Mitridate e, come se non bastasse, proprio quella primavera il capo dei germani Suebi, Ariovisto, aveva passato il Reno con quindicimila uomini, minacciando da vicino la Gallia Ulteriore, la più settentrionale delle province romane.

Invero la guerra di Spagna, condotta dall'astro nascente Gneo Pompeo il Grande, volgeva in quel momento al meglio. Nell'inverno appena trascorso il comandante delle forze mariane, Quinto Sertorio, era stato assassinato da un traditore e alla ripresa della campagna primaverile già s'intuiva il progressivo sfaldamento della resistenza nei confronti di una nuova offensiva dell'esercito repubblicano. A causa delle notizie che giungevano dalla penisola iberica, le previsioni a Roma erano volte verso un ottimismo crescente. Lo sforzo militare contro Mitridate in quei mesi vedeva impegnate le legioni di Lucullo, che avevano appena invaso il regno del Ponto e sembravano volgere a proprio favore la seconda fase della guerra.

Anche per questo, in quella metà di Majus, le preoccupazioni dei consoli in carica, Lucio Gellio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano, erano rivolte soprattutto verso il pericolo più grave per Roma: Spartacus, il gladiatore ribelle, lo schiavo che era riuscito a radunare intorno a sé un esercito composito e sempre più minaccioso fatto da schiavi e rivoltosi di ogni genere, tra i quali anche residui combattenti italici convinti di poter ancora abbattere l'odiata Lupa.

Iniziata un anno prima in seguito a una fuga di gladiatori, la rivolta aveva ben presto assunto il volto di una ribellione contro lo stato romano. Indomiti reduci sanniti e lucani, schiavi di ogni provenienza, nemici della Repubblica in cerca di vendetta contro la terribile restaurazione sillana e i suoi beneficiari, rivoltosi di ogni genere e provenienza si erano uniti a Spartacus nella speranza, ancora una volta, di abbattere il potere centralizzato dell'Urbe, abolire la schiavitù e rendere la libertà alla penisola italica.

Il sogno del comandante gladiatore era stato fin dall'inizio la costruzione di una nuova Roma, magari comandata da Sertorio, in cui le residue genti sannite e gli altri popoli italici potessero veder rispettati i loro diritti e soprattutto le diverse identità e retaggi culturali. Le bande di Spartaco devastavano, rubavano, assaltavano le proprietà dei ricchi cittadini romani delle province, mentre il grosso delle forze era spesso impegnato a saccheggiare le comunità che non si univano alla rivolta. Le sue scorribande avevano procurato non pochi danni alle città campane e alle vie commerciali delle regioni centrali, rendendo insicure, ad esempio, le vie della transumanza tra l'Apulia e i monti dell'Alto Sannio, dei Peligni e dei Marsi. L'ex gladiatore era a capo di un vero e proprio esercito di almeno quarantamila uomini destinati a raddoppiare in pochi mesi. Giunta la primavera egli intendeva persuadere la Campania a ribellarsi e a proclamare la fine del giogo romano. Nola e Nocera avevano risposto di no, stanche di combattere; troppo vicini nel tempo erano, infatti, il sangue e le devastazioni della guerra sociale e di quella civile. Le due città erano state per questo saccheggiate dalle truppe di Spartacus che nel corso della prima parte della buona stagione si era recato a sud per attaccare Cosenza, Turi e Metaponto. A metà di quella primavera le sue forze erano entrate nel Sannio: Aesernia, Bovia-num, Sæpinum e Beneventum avevano rifiutato di schierarsi, ma non erano mancati gruppi di soldati pentri - i quali avevano bevuto l'odio per Roma con il latte stesso delle loro madri - che si erano uniti al suo esercito abbandonando i nascondigli montani dai quali, da poco meno di dieci anni, stavano partecipando alla guerriglia mai domata dalla Repubblica. Ora si favoleggiava sul numero degli uomini al seguito del Gladiatore: sessantamila, ottantamila, centomila...! Le informazioni che giungevano in Senato erano discordanti, ma sempre più minacciose. In quello stesso anno, compiute le ventotto primavere, un ambizioso e promettente giovane patrizio, Caio Giulio Cesare, diventava Tribuno militare.


Nicola Mastronardi




 

Fonte: N. Mastronardi, Viteliù. Il nome della libertà, Itaca, Castel Bolognese 2012.

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