Molti erano i pensieri che si affollavano nella mente del vecchio cieco durante il cammino. I tempi erano maturi, ne era certo, per compiere ciò che si era prefisso fin dal giorno della sua cattura da parte dei Romani, ma ora le incognite gli apparivano enormi, come non avrebbe creduto. Le conseguenze della sua azione gli si rivelavano ignote. Ostentava sicurezza, anche verso se stesso, ma più la sua meta si avvicinava, maggiori erano i timori che lo assalivano. Si fermò di nuovo, pensieroso, come per prevedere il futuro; sospirò, attribuendo i suoi timori alle debolezze dell'età avanzata, ma non era così; un tale stato d'animo non era nuovo per lui. Era successo anche ai tempi in cui dalle sue decisioni era dipeso il destino di un popolo intero. Tranne che in battaglia, l'incertezza aveva fatto capolino nel suo animo in molte occasioni decisive. Stavolta però, si disse, era diverso. La sua vita stava finendo e ciò che si apprestava a fare era il compimento di un fato che sapeva essere non più rinviabile. Un pensiero, forte più di altri, lo sosteneva: forse lui solo, fra i moltissimi nemici giurati di Lucio Cornelio Siila, avrebbe avuto la sua vittoria nei confronti dello spietato dittatore. L'unico modo per ottenerla era giungere alla meta di quella mattina di Majus. Perciò riprese a camminare con più decisione di prima.
Finalmente svoltò, sempre condotto dal servo Kaeso, in una via residenziale di quella zona settentrionale di Roma. Lì le botteghe finivano per lasciare il posto alle abitazioni private. Un quartiere, non grande, di case di benestanti. Si fermarono davanti all'ingresso di una delle ville; Kaeso la conosceva bene. Per almeno sei anni, per un preciso, assillante ordine del vecchio, aveva spiato il ragazzo che abitava in quella casa, con il compito di riferire ogni particolare significativo senza farsi notare. Da qualche minuto il servo aveva intuito dove si stessero recando, ma solo in quel momento ebbe la certezza: ciò che stava per accadere era legato all'adolescente di cui sapeva tutto. Kaeso non conosceva il motivo dell'interesse del suo padrone per quel giovane, pur avendo cercato di scoprirlo in molte maniere. Cosa c'era nel figlio di Lucio Stazio Caro e di Livia, che lo legasse al vecchio cieco? Egli lo ignorava ancora, dopo tutti quegli anni.
– Siamo forse arrivati signore? – chiese il servo con una lieve incertezza nella voce. – Questa è la casa di... del... giovane. Era qui che volevate recarvi? Siamo dinanzi all'ingresso.
– Bene – mormorò l'anziano. Un respiro profondo gli gonfiò il torace. – Il momento è giunto. Annuncia ai padroni di casa il nostro arrivo.
Kaeso tirò la corda e dall'interno sì udì il suono di campanelle. Immediato fu l'abbaiare dei cani che, dalla voce, s'intuivano di grossa taglia. La casa era sveglia e, infatti, subito qualcuno si accostò al pesante cancello di ferro. Una finestrella si aprì e apparvero gli occhi azzurri e sospettosi di un vecchio.
– Chi siete? – chiese questi interrogando gli estranei più con lo sguardo che con le parole. L'uomo soffermò la sua curiosità soprattutto su quel cieco dall'aria solenne e sul bastone dalla strana foggia che teneva nella mano destra. Fu quest'ultimo a parlare in un latino che tentava di pronunciare correttamente.
– Annuncia ai tuoi padroni che un parente venuto dal Sannio Pentro è tornato a prendersi ciò che è suo.
Non fu poca la sorpresa dell'interlocutore che a quelle parole trasalì scrutando ancor più profondamente quello strano personaggio; poi chiuse di scatto la piccola finestra. Dal rumore veloce dei suoi passi, s'intuì la corsa ad avvertire i padroni di casa.
Kaeso, dal canto suo, aveva appena sentito le parole che non avrebbe voluto udire. Deglutì a fatica. Era la conferma dei suoi sospetti più neri e ora aveva una voglia matta di fuggire per miglia lontano da quella situazione. Ignorava cosa sarebbe accaduto di lì a pochi minuti, ma a incutergli terrore gli bastava la certezza di aver servito, per anni, un Sannita della touto dei Pentri. Un capo, forse, sotto mentite spoglie, pensò, visto che se Siila ne avesse conosciuta la vera identità, mai si sarebbe sognato di proteggerlo. Ma il dittatore non era uomo da farsi gabbare facilmente. E allora? Tornò confusamente all'ipotesi del traditore. In quale situazione si stava cacciando? Il tradimento è sempre pericoloso... La confusione nella testa del servo era grande, pari solo alla sua paura. Sudava pur avendo brividi di freddo pensando al pericolo sin qui corso. Deglutì ancora. Complice di un capo sannita! Era più che sufficiente per essere decapitato anche ora, a tanti anni dalla morte di Lucio Cornelio. Non fuggì, come impietrito dal panico che lo aveva definitivamente annientato.
Il cancello si aprì e sulla soglia apparve il padrone di casa, Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum. Un uomo non alto, ma dall'aspetto gradevole. Aveva il fisico robusto degli Italici; la sua era una gens originaria di quella zona del Sannio Pentro meridionale, divenuta romana da più di due secoli, dal tempo in cui erano terminate le guerre sannitiche. Fin da allora gli Stazi avevano fatto fortuna vendendo a Roma il pregiato olio di Venafrum - proveniente da una particolare qualità di oliva detta liciniana, nota a Roma da almeno due secoli - tanto da permettersi una vita agiata da più generazioni e anche un'abitazione nella capitale in cui Lucio Stazio e sua moglie Livia avevano preso stabile dimora da almeno sette anni. Come dimostravano anche i capelli brizzolati, l'uomo aveva superato da poco i cinquanta anni. Guardò con intensità il vecchio soffermando lo sguardo sulla tunica, sul cinturone di bronzo e su quello strano bastone, dal quale, in particolare, sembrò turbato. Senza staccare lo sguardo dalla piccola scultura a forma di toro, si rivolse al servo.
– Un parente che viene dal Sannio, avevi detto, Publio. Ma questi due non mi sembrano parenti. Tanto meno che... vengano dalle nostre terre. Sono di Roma, mi sembra.
Fissò l'anziano.
– Un viso conosciuto... sì, ci sono!
Il tono della voce divenne improvvisamente duro.
– Sei l'anziano protetto da Silla! Che cosa vuoi dalla mia casa?
– E tu sei Lucio Caro della famiglia degli Stazi di Venafrum.
Questa volta il vecchio aveva parlato in osco. Fece una pausa. Nella sua voce si avvertì un impercettibile cenno d'emozione.
– Io conoscevo tuo padre Calvo Stazio – continuò parlando nella lingua dei Sanniti che sapeva essere ben compresa dal suo interlocutore. – Fummo bambini insieme, poi giovinetti: non si sa quanti cavalli abbiamo domato e cavalcato insieme, sulle praterie dell'Alto Sannio. Egli vi si recava ogni estate e lì io vivevo. Il nostro affetto andava molto oltre il legame di sangue. Tu dovresti capire chi sono.
Un'altra breve pausa per attendere una reazione che non venne. Il padrone di casa lo stava ancora studiando.
– Chi io sia veramente lo saprai presto. Accoglimi nella tua casa – aggiunse soltanto.
A quelle parole, ora accompagnate dal tono di chi ha autorità, Lucio Stazio non esitò un attimo di più ad aprire il cancello per far entrare i due nell'atrio. Prima di chiudere guardò in strada, a destra, poi a sinistra, per capire chi avesse potuto assistere alla scena. Nessuno, ne fu rincuorato.
– Nella stanza delle visite – ordinò – e che non ci disturbi nessuno. Nessuno, capito?
I due ospiti, preceduti dall'anziano servo che aveva appena legato due splendidi mastini bianchi originari dei monti dei Marsi, attraversarono Yatrium e imboccarono il corridoio che portava al giardino. Furono introdotti in una camera ben arredata con triclini e vivaci dipinti alle pareti. Due finestre illuminavano l'ambiente; per evitare sguardi indiscreti Lucio chiuse i pesanti tendaggi. Il vecchio chiese di potersi sedere, lo fecero accomodare su uno sgabello dopo che egli ebbe rifiutato il triclinio. Non senza un nuovo moto di sorpresa da parte di Lucio, il cieco chiese che fosse convocata anche la moglie di questi, Livia. La donna venne; entrando osservò curiosa lo strano personaggio. Questi, non appena la sentì arrivare, si alzò in piedi. Poi tese la mano verso di lei, che in un primo momento si ritrasse, e ne cercò il viso; lo sfiorò con una carezza, come per indovinarne i lineamenti. Un sorriso si dipinse, impercettibile, sotto la folta barba bianca.
Livia aveva superato da poco i quarant'anni. Era stata una donna molto bella e lo era ancora. Nel portamento e nei suoi modi di fare conservava tutta l'orgogliosa eleganza della stirpe italica di cui conservava anche a Roma le tradizioni più significative. Al contempo, come Lucio Stazio, si era perfettamente integrata nella vita della città.
Il comportamento di quell'anziano sconosciuto la incuriosì, senza tuttavia turbarla troppo, in un primo momento. Il vecchio Sannita pretese di restare solo con Livia e Lucio. Questi acconsentì, ma fece cenno al servo dagli occhi azzurri, che rispondeva al nome di Elvio, di non allontanarsi e di rimanere all'esterno, nei pressi della porta.
– La benedizione della madre Kerres, di Herekles e Ops e di tutti gli dèi sia su questa casa. Meritate ogni bene per ciò che avete fatto.
Il vecchio aveva pronunciato la frase con solennità rimanendo ancora in piedi. Le sue parole erano state accompagnate dal gesto solenne delle mani protese a benedire i due. I coniugi si guardarono, entrambi con apprensione negli occhi. Livia strinse la mano di Lucio. Una sensazione di disagio le attraversava ora il cuore e la mente.
– Avete chiesto il mio nome. Ebbene lo saprete. È un nome impronunciabile a Roma. Ma è giunto il tempo di rivelarlo a voi. A voi soli.
L'inquietudine della donna cresceva visibilmente. Lucio scrutò il viso del vecchio che con lentezza grave si apprestò a rivelarsi. Si sedette.
– Il mio nome è Gaavis Paapiis Mutìl, Meddiss toutico dei Pentri e dei Carficini, Embratur dei Sanniti e dei Vitelios nella grande guerra contro Roma.
Silenzio. Un lungo interminabile attimo di stupore fra i due coniugi. Lucio Stazio dapprima scosse la testa, evidentemente incredulo, poi reagì; scattò in piedi e affrontò il vecchio faccia a faccia, sovrastandolo minaccioso, come se questi potesse vederlo.
– Non è possibile, sei un impostore! Papio Mutilo si è ucciso a Teano più di otto anni fa! Tutti videro la sua testa nel trionfo di Siila e poi sui rostri del Foro. Chi sei e cosa vuoi da noi, vecchio? Farai bene a lasciare subito questa casa se non vuoi.
Il tono della voce era stato violento, minaccioso, ma Lucio Stazio non riuscì a finire la frase. Colui che aveva detto di chiamarsi Papio gli aveva chiuso la bocca con un gesto della mano, interrompendolo. Si alzò di nuovo.
– Era la testa di mio fratello, morto durante l'assedio di Nola. Aveva il volto in parte sfigurato in modo che non fosse riconosciuto. Mia moglie Bantia, d'accordo con me, l'aveva inviata a Silla in un cesto: volemmo fargli credere che lei mi avesse rifiutato l'ingresso presso la sua casa paterna e che io mi fossi suicidato. Molti pensarono che lei stessa mi avesse fatto uccidere per salvarsi da Silla; io, infatti, ero in cima alla testa di tutte le liste dei proscritti del... Romano! Ma Lucio Cornelio, pur facendo credere a tutti quella storia, non cadde nell'inganno.
Tolse la mano dalla bocca di Lucio e tornò lentamente a sedersi.
– Ma lasciate che vi racconti tutto, affinché possiate sapere.
Lucio Stazio si avvicinò alla moglie prendendole le mani. Aveva ancora il respiro grosso dovuto alla reazione di poco prima. Si sedette accanto a lei e l'abbracciò. Entrambi avevano lo sguardo fisso sul vecchio; nel viso di Lucio Stazio si leggeva ancora l'ombra del sospetto, in quello di Livia la paura. Il suo cuore intravedeva, con terrore, il vero motivo di quella inattesa visita.
– Mi catturarono più di un anno dopo. Nola si era appena arresa ed io stavo tentando di tornare sui miei monti poiché anche Aisernio, la nostra ultima capitale, era caduta. Fu Verre a prendermi, sui sentieri del Monte Tiferno. Lo aveva inviato Silla. Lui non aveva mai smesso di cercarmi, in segreto. Da qualche tempo mi ero ritirato, cieco, stanco di guerre, lotte, sangue, di tanti sogni infranti di un'intera nazione e di tanti altri popoli, contro il destino che aveva sempre favorito, implacabilmente, Roma. Tuttavia abbandonare la lotta contro i nemici della nostra libertà non era stato possibile per me. Pur avendo ceduto da anni il comando a Ponzio Telesino, l'odio di Silla per me era vivo ed io sapevo di non poter cadere nelle sue mani. Avevo fatto di tutto perché la fazione del Cornelio fosse sconfitta, progettai io l'assalto diretto contro le mura di Roma sug-gerendo la strada che condusse l'esercito a Porta Collina; lì il sogno di sconfiggere la Repubblica degli optimates fu a un passo dall'essere realtà. Poi il fato ancora una volta aveva favorito Silla. I Sanniti, lui, non li aveva mai perdonati. Il suo desiderio di vendetta non si era saziato delle stragi e del sangue italico versato a fiumi come non si era visto a memoria d'uomo. Egli voleva anche me. Voleva la vendetta contro chi era riuscito a progettare persino uno stato indipendente da Roma minacciando ancora una volta la sua stessa sopravvivenza; contro il capo dei più ostinati nemici... i più pericolosi: i Samnites, sotto il comando dei quali, insieme ai Marsi, la rivolta di tutti gli Italici aveva avuto origine. Noi, che avevamo osato alzare la testa per riconquistare l'antica dignitas e la libertà... la nazione che al tempo dei padri era stata la sola vera alternativa a Roma e che ne aveva messo in discussione il dominio sull'Italia. Io, sopra tutti; mi considerava la mente della rivolta insieme a Silone, lo stratega della nuova nazione. Il Romano non mi aveva perdonato nemmeno la moneta oscena del Toro e della Lupa che ricordava a tutti l'oltraggio delle Forche a Caudio. Non aveva perdonato il nostro allearci con Mario e suo figlio, pur di vedere la sconfitta dei nobili conservatori. Infine, avendo subito più volte sconfitte da noi, considerava la touto dei Pentri nefasta per la glorificazione piena della sua persona.
Una pausa. Si aprì le vesti e mostrò in silenzio il tatuaggio sul petto. Nella stanza il silenzio era assoluto. Riprese.
– Se fossi giunto sui miei monti, essi mi avrebbero nascosto. È lì, nell'Alto Sannio, che avrei voluto finire i miei anni. Ma il Romano non volle lasciarmi andare. Fu dopo la caduta di Nola e la mia cattura, che il dittatore decise di ritirarsi a vita privata. Fu il suo ultimo atto, aveva compiuto ciò che doveva e voleva.
Lucio Stazio si liberò dalla mano della moglie e, ancora evidentemente incredulo, esclamò: – Perché mai Siila ti avrebbe lasciato in vita?
– Volle sfruttare l'inganno in cui mia moglie avrebbe voluto farlo cadere. Aver mostrato al popolo anche la "mia" testa aveva reso completo il suo trionfo su tutti i suoi nemici ora che per tutti anche l'Embratur degli Italici ribelli era morto. Con me in vita, accecato e ridotto in schiavitù nella stessa Roma, la sua sete di vendetta otteneva ancora di più: la mia umiliazione a vita e, attraverso me, l'umiliazione perenne di tutti i Sanniti pentri. Progettò che il mio dolore dovesse rinnovarsi giorno dopo giorno, fino alla mia morte che avrebbe dovuto coincidere con la sua. Fu questa, ai suoi occhi, la sua vittoria più raffinata. Più dei suoi trionfi su Mitridate o sullo stesso Mario. L'ultimo Meddiss toutico, l'Embratur del popolo che a Caudio aveva umiliato Roma e rovinato la sua gens, il comandante supremo di quella gente "feroce" e guerriera la cui scomparsa totale era per Siila l'unica garanzia per la sicurezza dei Romani. Il capo dei capi dei Safinos costretto ad assistere al trionfo di Lucio Cornelio Silla, all'avvento del suo potere assoluto, alla restaurazione della grandezza di Roma. Capite, ora?
Ancora una volta solo il silenzio rispose alla domanda del vecchio.
– Nei mesi in cui mi ha tenuto prigioniero, prima che morisse, egli mi faceva informare delle sue vittorie e di tutti i trionfi di Roma ovunque accadessero. Sapevo puntualmente delle sue vendette contro i nemici e delle proscrizioni, delle riforme che avrebbero riportato la Repubblica all'antica purezza, ma con un potere e domini immensamente più grandi. Roma, dopo la definitiva scomparsa dei Sanniti, e grazie anche al loro sangue, avrebbe potuto finalmente dominare il mondo.
Chiese dell'acqua. Gli fu portata dal servo Elvio, anch'egli come gli altri incredulo di quanto le sue orecchie stavano udendo. Riprese.
– Fui messo a conoscenza di tutti i dettagli della devastazione cui sottopose la mia terra e della deportazione della nostra gente. Un suo centurione recitava per me, una volta al mese, l'elenco dei nomi di capi famiglia catturati e decapitati nel Sannio da Verre e m'informava del destino di ogni famiglia i cui membri erano trucidati e i figli condotti in terre lontane. Le giovani stuprate, i giovinetti fatti schiavi. Seppi ancora delle distruzioni, della rovina delle cinte murarie di ogni tipo e delle città fino al più piccolo vico... Un resoconto puntuale in cui le atrocità venivano narrate ridendo. Forse Silla sperava in un mio suicidio. O forse era solo il suo modo di torturarmi. Si avverava ciò che aveva promesso: la cancellazione della nazione sannita e della sua memoria; l'oblio eterno dei nomi dei luoghi e dei monti abitati dai Pentri. Fui anche costretto, il giorno della ricorrenza, a essere presente alla festa della vittoria che ricordava la battaglia di Porta Collina e l'eccidio dei guerrieri sanniti... il mio servo doveva raccontarmi tutte le cose che io non potevo vedere. Anche le più oscene contro il mio popolo.
Kaeso, fuori della stanza, annuì conservando l'espressione di stupore e terrore assunta fin dall'inizio di quel racconto. I suoi occhi erano sgranati all'inverosimile.
Lucio Stazio e Livia apparivano impressionati da ciò che udivano, così come il loro servo che aveva continuato ad ascoltare anch'egli fuori della stanza. Nessuno osò ancora fiatare.
– Una crudeltà – riprese il vecchio, – superiore a ogni umana immaginazione. Poteva dirsi uomo Lucio Cornelio Silla, il dittatore dei Romani? Poteva avere sentimenti umani il capo di un popolo tanto crudele? Quando fui accecato, la notte della mia prima cattura diciassette anni fa, l'ultima cosa che mi fu concessa di vedere era stato lo sterminio di tutti i membri della mia famiglia. Tutto per un suo preciso ordine.
Chinò il capo e, per la prima volta dall'inizio del suo narrare, una smorfia di dolore gli apparve nel volto.
– Aveva deciso l'estinzione del sangue della mia famiglia oltre che della mia touto...
Una lunga pausa come a cercare un pensiero più profondo degli altri.
– Ma il romano non ha vinto – disse, e alzò la testa in un rigurgito di orgoglio.
Livia strinse forte la mano del marito, mentre un dolore acuto le attraversò il petto. Lucio Stazio si scosse e riuscì a parlare. Si accorse in quel momento di avere la bocca secca.
– Cosa... che cosa vuoi nella mia casa, forse ti sono venuti meno gli aiuti statali? Perché racconti a noi rutto questo. Sono storie passate. Silla è morto da anni, ormai. Anche se tu... anche se voi foste davvero chi dite di essere, che senso ha ricordare il passato. E perché farlo oggi, qui in casa mia?
Gavio Papio Mutilo alzò il capo e volse i suoi occhi spenti verso i coniugi; sembrava che li vedesse.
– Una notte di sedici anni fa – disse lentamente – riceveste qualcosa da custodire. Lo avete fatto bene. Qualcosa, o meglio, qualcuno che è caro a me come a voi, ma che non vi appartiene. Quel ragazzo è sangue del mio sangue e parte della grande nazione safina. È l'ultimo dei Papii. Appartiene ai suoi monti, non a voi e tanto meno a Roma.
Livia emise un urlo appena soffocato, il marito dovette sorreggerla. La donna cadde, esanime, fra le sue braccia.
Nicola Mastronardi
Fonte: N. Mastronardi, Viteliù. Il nome della libertà, Itaca, Castel Bolognese 2012.