Nei primi giorni di maggio, quando dalle nostre parti la primavera incomincia a farsi sentire, è solito notare il raccoglitore di voccarùsce inerpicarsi su per i nostri monti per raggiungere i vecchi stazzi alla ricerca della prelibata erba spontanea.
Questo orapo selvatico ha sembianze simili allo spinacio e spesso si confonde con l'ortica, dal momento che solitamente crescono insieme.
Una volta mondato e ben lavato va cotto in acqua salata e, al momento di scolare, fare attenzione a conservare l'acqua di cottura necessaria che, unitamente al pane raffermo o secco, darà il via alla 'mpaneccieàta, ovvero: amalgamare per bene. Tale operazione è opportuno eseguirla con un pestello di legno o, in mancanza, con un robusto cucchiaio purché di legno e terminarla solo quando l'impasto apparirà omogeneo. Nel frattempo, a parte, si fa soffriggere, con poca cipolla, la ventresca stagionata di maiale che si unirà alla 'mpanìccia e, con l'aggiunta di un pizzico di peperoncino e una buona spolverata di pecorino, il piatto è pronto.
Questa ricetta, in altri tempi, conteneva la muscìsca (carne di pecora essiccata al sole) al posto della ventresca; ma, ormai, risulta introvabile e noi ci auguriamo che, chi conosca l'antico metodo per realizzarla, lo tramandi, al fine di non disperdere ciò che, allora, era necessità ed oggi potrebbe divenire turismo culinario.
Re voccarùsce e tante altre erbe che crescono spontanee nel nostro territorio sono, o meglio, erano utilizzate da companatico in tanti piatti poveri, al fine di rendere più appetitoso il pane, quasi sempre duro se non stantio. Tra le tante, alcune si mangiavano anche crude, proviamo a ricordare (anche per sentito dire!): cieàmma-cieàmma o ciammarluótte, salvieàgge, fiùre de re paradìse, cassèlle, lambeàzzare, cuóppe-cuóppe, papeàmbare, pasctenàche, tieànne, ciacìvete, taratùffele, marruóina etc... quest'ultima usata (come la "genzianella") sia per stuzzicare l'appetito che per curare re varlìse (le escoriazioni) degli animali da soma.
Menzione a parte merita la rapàneca.
Questo particolare cardo selvatico, buono se mangiato prima di schiudere, veniva usato dalle ragazze (udite udite, oh giovani!) per rifiutare l'offerta di fidanzamento. Il malcapitato che riceveva il singolar dono era preso in giro dagli "amici" che lo canzonavano facendogli gli auguri per la bella rapàneca ricevuta.
Insomma, tra tutte queste erbe si pasceva, si cresceva e ci si moltiplicava, all'insegna del detto: "Tùtte jèrve cuóglie, cuóglie e puó màgnatele che sàle e uóglie!". A riprova di quanto sia vero tale detto, si narra che un noto avvocato capracottese, esercitante in quel di Roma, recatosi un giorno alla ricerca di voccarùsce, ne trovasse in tal quantità che, oltre a farne una scorpacciata nei giorni di permanenza a Capracotta, ritenne cosa buona continuare la ghiotta abbuffata a Roma, unitamente al resto della famiglia.
Fin qui, tutto bene!
Se non che, l'uomo di legge, tornato a Capracotta, con fare saccente, si vantò della gran raccolta, suscitando stupore e incredulità in quanti lo stavano ad ascoltare, i quali dovettero sudare sette camicie per convincerlo che in quel periodo e in quel luogo, re voccarùsce non potevano assolutamente esserci. Probabilmente si trattava di altre erbe. L'avvocato, pur non del tutto persuaso, concluse:
– Voccarùsce o non vaccarùsce, ije me r'aje magneàte e so' sctàte pùre buóne!
Il detto fu suggellato dalla legge!
Pasquale Paglione
Fonte: P. Paglione, Voccarusce 'mpanicce: la ricetta, fatti, aneddoti e..., in «Voria», I:2, Capracotta, ottobre 2007.