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Z' Mart'


Martire Monaco Frosolone
Frosolonesi negli anni '40: il primo a sinistra è Martire Monaco.

Qualche tempo fa ho visto una foto degli anni '40, dove ho riconosciuto quasi tutti i giovanotti presenti, nonostante i volti fossero ben precedenti a quelli che ricordavo, mi meravigliavo invece di non riconoscere un anziano col cappello ed un mantello di panno nero che gli avvolgeva la persona. Cercai di ricordare tutti gli abitanti delle case intorno, ma inutilmente, finalmente un pronipote disse chi era, ed allora fui preso da una serie di ricordi. Era Martire Monaco ru vardar' (bastaio). Nella prima metà degli anni '50, nel paese si parlava di lui sempre con piacevole ammirazione, era infatti uno dei rari che insieme alla moglie aveva superato i novant'anni, nonostante la sua vita non fosse stata facile, era vissuto ai tempi in cui per nutrirsi si ricercava anche l' siv', il grasso che i macellai scartavano perché non si vendeva. Venne da un paese dove la vita era ancora più difficile che a Frosolone: Capracotta a 1.400 metri sull'Appennino, dove la terra produce solo erba e boschi, con alberi i cui tronchi il vento forte si divertiva a contorcere nei modi più strani, buoni solo per il fuoco. Nelle situazioni impossibili, per sopravvivere viene fuori la capacità di utilizzare quanto si ha a disposizione. Quegli alberi andavano bene per l'ossatura delle varde, rendendole più resistenti di qualunque altra soluzione. Durante i lunghi inverni si lavorava in casa per poi andare a vendere nelle fiere. Qualcuno poi si stabiliva a lavorare dove c'era lavoro e smercio tutto l'anno senza bisogno di lunghi e faticosi spostamenti a piedi. Anche a Pescolanciano conobbi e sono amico di una famiglia soprannominata ru vardar', il cui capostipite Giu'uann' mi incontrava sempre con un sorriso per raccontarmi la sua vita. Era un vecchietto basso dal corpo robusto, con le gambe un po' storte, procedeva ondeggiando da un appoggio all'altro, i piedi andavano un po' in fuori prima di appoggiarsi al terreno, anche le braccia oscillavano un po' lateralmente. Era simpatico a tutti, la mascotte del paese, si divertiva anche a scendere in campo in pantaloncini, per una partita con quelli che potevano essere più suoi nipoti che figli. L'ho visto a 84 anni partecipare alla campestre del paese col numero attaccato a quella che era più una canottiera che una maglietta. Aveva superato anche brutte disgrazie occorsegli ed era benvoluto da tutti. Tornando al nostro paesano ricordo il mio stupore di ragazzo nell'apprendere che aveva un nome inusuale, Martire, e da allora avevo sempre il dubbio se si dovesse dire Z' Mart' o Z' Mart'r'. Quante volte l'ho visto venire alla bottega del nipote Martucc' dove confezionava, un po' al giorno, la sua varda, oppure aiutava a completarne una già iniziata. talvolta c'era qualche discussione su come era meglio fare l'imbottitura di paglia. C'è un quadro che mi viene sempre più spesso in mente: era una di quelle mattine domenicali quando il tempo cominciava a intiepidirsi ed il sole faceva risaltare il candore dello splendido, innocente marciapiede che ornava il mercato e dava pregio al paese. Sotto le acacie della loggia mio padre e Z' Mart' convesavano, io intorno a loro giocavo ascoltando. Ai ferri della scala di Pepp' Nardell' era legato un asino in sosta, qualcun'altro passava carico per andare in piazza a vendere la frutta, quasi tutti i contadini ne avevano con cavalli e muli. Di tanto in tanto passava rumorosamente qualche auto. In paese ce ne erano forse una ventina o poco più. Mio padre fece notare che ormai passava quasi un'automobile ogni cinque o dieci minuti, al che Z' Mart' disse: Tra quin'c' o vint' iann' d' chist' ciucceriell' n' nc' n' ar'man' manch'un (Tra quindici o venti anni di questi asinelli non ce ne resterà più nessuno). Io ascoltavo stupito, non mi pareva possibile una cosa così strana, ma sopratutto non colsi lo stato d'animo di quel vecchietto. Sono passati sessant'anni ed ogni volta che ripenso a quelle parole mi immergo sempre di più nei sentimenti del personaggio e nel valore di quella che fu allora una profezia amara. Anch'io, insieme alla persona, vedo svanire quel mondo che fu mio, ma per me è facile fare previsioni che ormai nulla sarà più come prima, i cambiamenti saranno continui e sempre più rapidi. Ma p' ru Vardar' era molto difficile constatare che in un mondo, che pareva eterno, il suo mestiere, quello che gli aveva permesso di realizzarsi e crescere una numerosa famiglia, sarebbe scomparso. Solo ora vedo la nostalgia e il rimpianto che c'era in quelle parole. Durante l'inverno successivo la moglie si ammalò, il nipote Martucc' disse a mio padre che un passero batteva sui vetri della camera, forse voleva entrare per ripararsi dal freddo, quando lo raccontammo a casa mia madre si allarmò: quello era un cattivo presagio, avrebbero dovuto far qualcosa per scongiurare. Poco dopo la donna morì e dopo alcuni mesi anche il marito la raggiunse, erano stati insieme una sessantina di anni, forse settanta. Allora non si usavano fiori ed era il numero di luci a dare lustro e prestigio, insieme alla solennità della messa cantata, il trasporto al cimitero avveniva a spalla. Stavo nella sagrestia di San Pietro quando venne un familiare per gli accordi del funerale e ricordo che don Filippo La Gamba frenò le insistenti richieste dicendo che non poteva mettere intorno al catafalco più di venti candele perché queste facevano annerire le pareti della chiesa, rifatte da poco. Il giorno del funerale il cielo era coperto, il sole della stagione precedente non si fece vedere. Al ritorno dal cimitero la gente non gradì la limitazione del parroco.


Giuseppe Fazioli

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