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LA STRAGE DI SANTOBÈ

di Lina Pietravalle (1887-1956)

Ora andò che un boscaiuolo più zannuto di suo marito si invaghì forte di questa femmina lacera trista e raminga pei boschi in attesa di Santobè, per levargli qualche denaro della giornata almeno per il pane degli otto Cosimini, prima che la sbornia serale gli facesse menar le mani come randelli. Essa era ancora giovane e la sua bocca prognatica, cavallina, mostrava sempre aperta delle gengive pallide e dei denti più bianchi della mandorla nuda. Guardava di taglio morsicandosi le labbra screpolate e masticando parole molli, stupide, piene di saliva. Ed allora diventava scaltra senza saperlo e d'una lussuria fredda e gommosa come la resina. E si faceva accoppare, senza che sapesse come e chi era colui che sotto un albero o dietro una catasta di legno, la possedeva. Poveretta, lei che conosceva della sua nequizia, della sua miseria? Niente! Un letto di foglie secche che gemevano e lei che si apriva come il mallo verde ed amaro d'una castagna di bosco, smemorata e lassa...

Ora dunque il boscaiolo che era oriundo di Capracotta si invaghì forte di lei. Era venuto per fare i carboni alla ripa selvosa del Trigno. Non aveva donna, ché gli era morta, e non figli. E sterile e solo viveva del fiato della foresta e del fumo greve del carbone, né sapeva come spendere i suoi quattrini. Era burbero e possente come un castrato. Ma con Marachela non aveva il coraggio di inferire, perché essa non diceva mai no ai suoi comandi e non aveva lingua per rispondere alle ingiurie di cui la complimentava, per farle capire quanto gli piacesse la sua bocca di cavalla macilenta, il suo fiato mozzo, i suoi capelli scinti e freddi, rossi come il sangue ammalato. Un giorno la prese per l'orecchia e le disse:

– Ohi Marachela, che ci fai con quel rinnegato ubbriacone di tuo marito? Invece di impastargli i figli con la misticanza, perché non vieni appresso a me che ci avrai pane e batoste a piacere? Perché, vedi Marachela, io ti raddrizzassi le cervella...

Ma Marachela si grattò in capo con la mano lentigginosa e guardò di taglio in terra come se vedesse spuntare un fungo vicino alla sua scarpa sfiancata.

– Che ci rimiri, somara mè? – le disse lui – Perché non rispondi?

E lei allora borbottò in gola:

– Ca, i figli ia, patrone mè.

Siccome era assai grulla, non riuscì a dire altro e senza voltarsi indietro, trascinando le foglie secche con i piedi, se ne andò.

  • L. Pietravalle, La strage di Santobè, in «Lo Spettatore Italiano», I:6, Industrie Grafiche Romane, Roma, 15 luglio 1924, pp. 506-507.

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