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VALERIA

di Emilio Penci (1850-1883)​

Quell'uomo e quella donna erano amendue del Sannio, il primo di Campobasso, l'altra di Capracotta, e vivevano da lungo tempo insieme.

Fin da fanciullo, Silvano, è tale il nome del nostro personaggio, ebbe le membra sviluppate e tenaci come le arbori delle sue selve natie; ebbe sete di fatiche, quasi di patimenti. Per lui, cui non garbava punto il lavoro della terra, non bastava mietere colla scure le lunghe chiome delle selci, né trascinarsi i fasci di legna giù per le chine, o condursi su per letti di torrenti asciutti e sentieruoli quasi inaccessibili; ogni po' tratto in casa non lo si vedeva più, scompariva; dov'era andato? i suoi genitori rozzi come la massima parte di quegli abitanti d'alture, poveri, non gli badavano molto; e talora egli tornava la sera trafelato, arso dal sole di luglio, senza cibo; tal'altra passava la notte a braccia nude, coll'umido della tramontana che gli batteva le tempia.

​Si era osservato che con gioia indicibile aveva un giorno percosso un piccolo cane legato ad un cancello e quindi impotente a difendersi, tanto da lasciarlo mezzo morto; un'altra, spennacchiato un uccello vivo che empiva l'aria di strida, una terza (contava allora quindici anni) non si sa per quale motivo, aveva gettato a terra ridendo di un riso freddo e lungo una ragazzina di nove o dieci anni, forte quasi come lui, e la tenne lì lungo tempo col ginocchio al ventre, una mano alla bocca, l'altra al seno, sicché se non fosse accorsa gente l'avrebbe finita. Interrogato perché avesse agito a quel modo, rispose che essa gli aveva dato un'urtone sopra un burratto e mostrava le lividure della difesa.

  • E. Penci, Valeria, in Ricordo d'amicizia. Strenna per l'anno 1882, Bontà, Milano 1882, pp. 92-93.

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